Perché l’Italia ha convinto l’Europa sulla questione climatica
17 Ottobre 2008
La politica ambientale europea ha subito, oggi, una clamorosa e inattesa sconfitta. Nonostante gli abbracci di facciata e il rincorrersi di dichiarazioni, per la prima volta dalla primavera 2007 (quando il Consiglio europeo lanciò il 20-20-20) uno Stato membro mette nero su bianco perplessità e proteste contro un piano giudicato costoso e utopistico. La posizione italiana (ma anche polacca, e in fondo perfino tedesca) non è stata liquidata con fastidio principalmente a causa del dato congiunturale:
ma essa è legittima e avrebbe dovuto essere espressa anche prima, e con più forza ancora.
La crisi finanziaria sta piegando le ginocchia al sistema industriale europeo. Il raggiungimento dei target ambientali avrebbe un impatto molto significativo sui costi dell’energia, con conseguenze drammatiche tanto sulla competitività internazionale, quanto sulla capacità delle imprese di tenere il passo. A questo si aggiunge che il calo dei prezzi del petrolio è, dal punto di vista della politica europea, una mezza sciagura, perché fa crescere il costo opportunità delle fonti alternative. Se si mette tutto questo assieme, si capisce il perché di un malessere che, a dire il vero, c’è sempre stato ma si era finora mantenuto sottotraccia. Ed è naturale che i primi a sbottare siano coloro che si aspettano maggiori
difficoltà a fronteggiare gli obblighi europei, cioè gli italiani.
A causa di una somma di decisioni o fatti passati, che vanno dai prezzi storicamente alti dell’energia alla scelta di fatto del “tutto gas”, l’Italia ha meno spazi di manovra per ridurre le sue (già relativamente basse) emissioni e per aumentare la sua (già relativamente alta) efficienza, oltre che per accrescere la quota di energia verde nel suo mix (anch’essa piuttosto elevata, grazie al grande idroelettrico che però non piace a Bruxelles).
Cosa bisogna aspettarsi, adesso? Le diplomazie nazionali e quella della Commissione sono al lavoro per trovare quella sintesi che nei comunicati ufficiali – per esempio nelle parole di José Manuel Barroso, presidente dell’esecutivo Ue, e in quelle del presidente francese, Nicolas Sarkozy – già c’è. E’ significativo che il cancelliere tedesco, Angela Merkel, si sia tenuta in disparte: Berlino è il vero responsabile di tutto il pasticcio, perché è proprio sulla spinta delle lobby rinnovabili tedesche che frau Merkel si era messa in testa di guidare la nuova rivoluzione tecnologica europea.
Silvio Berlusconi si è assegnato il ruolo di portavoce dell’insoddisfazione, e in questo trova sponde esplicite (a Varsavia e in altri otto paesi dell’Est) e meno esplicite, ma concrete, come la Spagna e in parte il Regno Unito, altro attore piuttosto defilato. Barroso e Sarkozy, che oggi sono i più determinati difensori del piano (con qualche distinguo), hanno chiarito che non è accettabile alcun ripensamento degli obiettivi. Quindi l’enfasi si sposta sui mezzi. Probabilmente, gli strateghi europei cercheranno delle soluzioni che consentano di tener maggiormente conto delle specificità nazionali, ma il rischio è di mettere una pezza peggiore del buco. Infatti, se la via d’uscita fosse la creazione di più ampi orizzonti di discrezionalità per le burocrazie nazionali ed europea, si finirebbe per mettere in piedi un gigantesco moloch il cui unico scopo è stabilire “winners” e “losers” attraverso la distribuzioni di favori (ossia salvacondotti, esenzioni e deroghe).
L’Europa è a tal punto prigioniera della sua stessa retorica da non riuscire neppure a immaginare la possibilità di aver sbagliato. In parte questo dipende dalla convinzione che il prossimo presidente americano, sia esso John McCain oppure Barack Obama, avvicinerà gli Stati Uniti alla posizione europea sul clima. Si tratta di una credenza in parte fondata, ma se i leader europei pensano che gli Usa percorreranno la loro stessa strada di obiettivi vincolanti e di breve termine, molto probabilmente si sbagliano. Il prossimo inquilino della Casa Bianca dovrà, anzitutto, risollevare il paese dalla crisi e ricostruire il sistema finanziario. Difficilmente troverà tempo e risorse per star dietro alle velleità climatiche europee. Nell’attesa della prossima doccia fredda, il tempo passa e il 2020, coi suoi obiettivi, è sempre più vicino.