Perché l’Ue ha bisogno di una nuova conferenza di pace sul modello Madrid

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Perché l’Ue ha bisogno di una nuova conferenza di pace sul modello Madrid

11 Febbraio 2009

Ricordate? Non solo anni fa, ma anche nelle immediate vicinanze dell’ultima campagna elettorale il Presidente Berlusconi dichiarò di voler “fare” una nuova “conferenza di Madrid” con il sostegno dell’UE. Che fine ha fatto tutto ciò? Eppure, al di là del silenzio assordante, l’ idea di una Conferenza internazionale per far ripartire il dialogo tra israeliani e palestinesi e la speranza di Silvio Berlusconi, di riportare le parti attorno a un tavolo in tempi brevi, sembrava cosa fatta. In verità precedentemente lo stesso Aznar, allora premier spagnolo e  presidente di turno della Ue constatava l’assenza di “condizioni minime di fiducia e di credibilità” per riprendere il processo di pace. Si trattava e si tratta di fare una Madrid 2 , con riferimento alla storica conferenza sul Medio Oriente svoltasi nella capitale spagnola all’ inizio degli anni ‘ 90.

Nel 1991 la squadra palestinese, a causa delle obiezioni israeliane, era composta da palestinesi dalla Cisgiordania e della Striscia di Gaza, senza aprire ad associazioni dell’OLP. Lo scopo della conferenza era quello di servire come un forum di apertura per i partecipanti e non aveva alcun potere di imporre soluzioni o accordi di veto. Oltre a questo segnava  l’inaugurazione  dei negoziati bilaterali e multilaterali coinvolgenti la comunità internazionale e in particolare l’UE. I primi colloqui bilaterali tra Israele ei suoi vicini (tranne l’Egitto) furono finalizzati al raggiungimento di trattati di pace tra i 3 Stati arabi e Israele, mentre i negoziati con i palestinesi si basarono su una formula di “2-fasi”: la prima consistente nel negoziare una modalità ad interim di auto-governo, l’altra seguita da negoziati sullo status permanente (questa formula è stata essenzialmente ripresa negli accordi di Oslo). In seguito i negoziati multilaterali, che hanno preso il via a Mosca il 28 gennaio 1992, si svolsero in 5 sedi separate ciascuno incentrato su un tema: l’acqua, l’ambiente, il controllo degli armamenti, i rifugiati e lo sviluppo economico e, successivamente, si tennero  fino al novembre 1993 in tutto il mondo. In un primo momento, Israele rifiutò di prendere parte alle riunioni soprattutto in presenza di rifugiati palestinesi provenenti al di fuori della Cisgiordania e da Gaza. Siria e Libano, da parte loro, rifiutarono di prendere parte a riunioni multilaterali fintanto che non vi fosse un qualche progresso concreto sul piano bilaterale.

La verità è che la grande assente, ancora oggi, è proprio l’UE. Infatti nel settore della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) due sembrerebbero le principali novità istituzionali previste dal Trattato di riforma: l’ “Alto rappresentante per la politica estera e gli affari di sicurezza” e il “Servizio europeo per l’azione esterna”. L’Alto rappresentante per la politica estera e gli affari di sicurezza, che il Trattato costituzionale denominava invece, più ambiziosamente, “Ministro degli affari esteri dell’Unione europea”, dovrebbe riunire in sé i ruoli e le attribuzioni di due figure istituzionali attualmente distinte: l’Alto rappresentante per la Pesc e il Commissario per le Relazioni esterne. Questa fusione, che dovrebbe semplificare il quadro istituzionale, tende a dare maggiore coerenza ed efficacia alla politica estera europea.

Ma quale politica estera che vada al di là delle semplici dichiarazioni? Il Servizio europeo per le relazioni esterne, che dovrebbe costituire l’embrione di una sorta di corpo diplomatico europeo e composto da funzionari della Commissione, del Segretariato del Consiglio e da diplomatici distaccati dai paesi membri vorrebbe far si che i paesi Ue riescano ad agire sempre più di concerto nelle varie aree del mondo, facendo prevalere le politiche comuni su quelle bilaterali. In primo luogo, molti dettagli importanti devono ancora essere chiariti. In secondo luogo, bisogna considerare che in vari paesi europei e nella stessa Bruxelles ha ripreso a soffiare da qualche tempo un vento intergovernativo, che tende a frenare i tentativi di rafforzare la dimensione comunitaria e sopranazionale dell’Ue. Emblematica di questo clima è la dichiarazione sulla Pesc, che, su richiesta soprattutto della Gran Bretagna, è stata allegata al Trattato di riforma: vi si riaffermano con pignoleria le prerogative dei paesi membri nel settore della politica estera e della diplomazia.

È chiaro quindi che restano profonde e diffuse resistenze allo sviluppo di una politica estera comune. Con queste resistenze si dovrà fare i conti anche quando si tratterà di realizzare concretamente le nuove misure di riforma.  Vista l’assenza di un ruolo dell’UE difficilmente si potrà trovare una soluzione condivisa e comune. Sarebbe, però, auspicabile convocare al più presto una “nuova conferenza di pace” sul modello di quella di Madrid: solo così si potrebbe sperare in una qualche soluzione e, con una presidenza stabile del Consiglio Europeo, si avrà la possibilità di chiamare direttamente l’Europa, per parafrasare la celebre frase polemica di Kissinger “Se voglio chiamare l’Europa, che numero devo comporre?”. Molto, ovviamente, dipenderà dalla capacità dei leader europei sapranno dimostrare, nonché dallo spazio che le capitali nazionali, soprattutto Roma, Londra, Parigi e Berlino concederanno a questa auspicabile e urgente “Madrid 2”.