Perché mai nelle scuole non vige il principio del “chi rompe paga”?
17 Giugno 2008
Nel 1972, il mio secondogenito che all’epoca frequentava la scuola materna, tornò a casa mortificato e preoccupato e mi disse che aveva rotto una seggiolina. Puntualmente il giorno dopo la direttrice, che ricordo sempre con grande affetto, mi consegnò un foglietto dove aveva scritto l’indirizzo del suo fornitore di seggiolette.
Io avevo tre figli piccoli e me li gestivo da sola, non conoscevo Roma e l’idea di andare a via dei Sediari a cercare la seggioletta, mi sembrava un eccesso di rigore: la punizione si sarebbe riversata anche su di me e non solo per il costo. Invano proposi alla direttrice di pagare semplicemente il prezzo, la benemerita signora fu irremovibile.
Il pomeriggio seguente, con i tre bambini (la più piccola in braccio) salii sull’autobus che portava verso il centro di Roma. Camminammo a lungo prima di trovare la famosa via e, alla fine mi caricai la seggioletta e rifeci con loro (e non fu semplice) il percorso all’incontrario. Avevo pensato di fare una bella ramanzina al bambino, ma arrivammo a casa stanchi e sudati, così mi limitai a dirgli: “Vedi che non si ripeta, non solo costa, ma è anche faticoso”.
Non si ripetè più e sono convinta che la punizione corale sia stata una salutare ed efficace dimostrazione di quello che capita se si rovinano le suppellettili in casa d’altri.
Una quindicina di anni dopo, ad un convegno, un ministro della Pubblica istruzione, ci raccontò che certi progetti non si sarebbero potuti attuare perché il bilancio era gravato da somme molto consistenti ed impreviste. Ci spiegò: era necessario procedere a numerose riparazioni di edifici e attrezzature che, nel corso di occupazioni scolastiche variamente e anche fantasiosamente motivate, gli studenti avevano danneggiato o distrutto. In una sola sede, esagitati in vena di vandalismi, avevano causato oltre trecentomilioni di vecchie lire di danni.
Quando domandai al Ministro come mai non si potesse recuperare, e soprattutto per gli studenti, il vecchio caro “chi rompe paga”, lui mi rispose scuotendo il capo e guardandomi come se fossi un alieno: “In questi casi è la collettività che deve intervenire!”
Non avevo diritto di replica, e quindi rimasi in silenzio ad ascoltare i resoconti che sembravano bollettini di guerra. Mi colpì soprattutto che la rassegnazione e l’accettazione del “necessario intervento della collettività” fossero condivisi da tutti (o quasi) coloro che lavoravano nel settore scolastico.
Qualcuno mi si rivolse perfino con un “Lei non si rende conto” grondante sufficienza, che mi lasciò ancora più sconcertata riguardo al, per me nuovo, concetto di collettività.
Ma che idea può mai farsi un ragazzo di una collettività che copre ogni suo vandalismo, ogni suo eccesso, senza mai comminare una punizione che abbia un senso morale, una collettività che rinunci definitivamente ad educare?
La collettività è così diventata “niente e nessuno” invece che “tutti e ciascuno”.
E quindi la collettività, questa infelicissima espressione del bene comune, non possiede più il senso della giustizia, non protegge i deboli, non difende i bisognosi, non premia gli onesti.
Tanto si è diffuso questo novello senso del “niente comune”, che dalle Alpi alle Piramidi, la situazione di oggi non è affatto mutata: gli studenti vanno a scuola e quando si annoiano, rompono i banchi, fanno i buchi sui muri, picchiano, violentano e si filmano pure.
I notiziari ci informano e quello che ci raccontano fa orrore.
Nel 1963, per la regia di Dino Risi, uscì I mostri un film che fece epoca. Ricordo all’uscita del cinema, ragazzi, giovani e meno giovani, ridere di gusto alle gag degli attori….
Un mosaico di un cinismo agghiacciante dei vizi emergenti: l’Italia che il regista presenta è certamente ben pasciuta per effetto del miracolo economico, ma anche convinta di potersi definitivamente scrollare di dosso come ridicoli vestiti ottocenteschi, quei codici di comportamento morale di cui era andata fino allora fiera. Ridotti a povere macerie, amore, rispetto, generosità, compassione, dedizione e perfino speranza, vengono rigettati in blocco mentre personaggi diversi, religiosi o laici, padri e padrini, borghesucci che si sentono padroni, predicano a chiare note furbizia, disonestà e spregiudicatezza.
Quel che conta è arrivare, soffrire di meno, avere vantaggi: se per ottenere questo bisogna agire da vigliacchi, approfittare dei più deboli, mentire e corrompere…i mostri non fanno una piega perché il mondo va così.
Non erano molte le persone che dichiaravano apertamente che erano disgustate più che divertite, che l’unico sentimento che avevano provato durante la visione era l’orrore per patologie, certamente accentuate, ma che dal film ricevevano quasi un crisma, un diritto d’esistenza.
I mostri sono cresciuti, hanno avuto figli e, mentre nell’Ottocento si cercava di insegnare il rispetto declinato in ventagli amplissimi di destinatari che comprendevano i genitori, i maestri, le autorità, i soldati che difendono la patria, gli eroi che soccorrono i deboli e gli indifesi e perfino il comportamento nella strada (la casa di tutti), oggi a mezzo secolo di distanza, prendiamo atto dei disastri prodotti da una diseducazione sistematica, e ci limitiamo a tirare in ballo la fumosa “collettività”.
E perché mai non ricominciare dalle responsabilità della singola persona?
Se qualcuno viene a casa mia e mi svelle il lavandino del bagno, lo considero un delinquente ed esigo la riparazione.
Lo studente che danneggia le suppellettili è responsabile in proprio e i suoi genitori in solido: se rompe deve pagare e credo che la collettività abbia altro a cui pensare.
La scuola non è “di tutti e di nessuno”, è di chi la usa, di chi usufruisce del servizio scolastico.
Vogliamo scommettere che se si instaura il principio che chi rompe paga, i danneggiamenti ad edifici pubblici diminuiranno drasticamente?