Perché rimango a presidiare l’atollo del referendum

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Perché rimango a presidiare l’atollo del referendum

02 Maggio 2007

La torre di Babele non deve essere nata in modo molto diverso da come si sta sviluppando il dibattito sui referendum elettorali. Vi sono sostenitori accaniti della prima ora che oggi ritengono quel referendum una iattura, leader referendari storici che lo definiscono il tentativo d’introdurre “una super-porcata” e, per contro, oppositori storici sulla via della conversione e appoggi quanto meno sospetti. E’ proprio di ogni referendum che si rispetti creare schieramenti trasversali. Qui, però, si sta esagerando: siamo al casino, per di più disorganizzato. La ragione è semplice: questo referendum incrocia, insieme, l’esistenza del governo, la durata della legislatura e pone il problema degli schieramenti con i quali ci si recherà alle urne alle prossime elezioni. E’ del tutto evidente, dunque, che la convenienza politica contingente prevalga sul contenuto di merito. E la convenienza politica, com’è noto, è volubile. Soprattutto quando c’è una maggioranza tenuta insieme con lo sputo, che va avanti più per paura che per convinzione.  

Per cercare di mettere un po’ d’ordine in tutto questo guazzabuglio, meglio partire dalla propria condizione personale: iniziare con lo sviluppare il tema “io e il referendum” e da lì muovere per delle considerazioni generali. Mi trovo, infatti, in una condizione particolare: con pochi amici sono uno degli ultimi soldati di Forza Italia rimasti a presidiare l’atollo del comitato promotore. E ci rimango non già con il piglio guerriero del giapponese quanto, piuttosto, con l’animo disincantato del protagonista di Mediterraneo, il film di Salvatores, acquartierato nelle retrovie in attesa di comprendere cosa ci riserverà la vita politica nei prossimi mesi. Cerco di spiegare perché.

Sono convinto che questi tredici anni di transizione abbiano introdotto due conquiste che hanno modernizzato la nostra vita politica e alle quali non bisogna in alcun modo rinunziare: il bipolarismo e l’aver concesso la parola al popolo per la scelta del governo e del suo capo. Esse sono state introdotte da una riforma della legge elettorale e, in seguito, non sono state perfezionate attraverso un più complessivo adeguamento delle istituzioni statali: da qui la gran parte delle attuali debolezze del sistema politico. Guai a cedere alla tentazione, però, di gettare il bambino assieme all’acqua sporca. L’Italia farebbe un passo indietro e la sua decadenza (politica ma anche economica) diverrebbe a quel punto difficilmente arrestabile.

Non nascondiamoci dietro un dito. C’è chi da tempo sta lavorando assiduamente affinché il bambino venga soppresso. La riforma elettorale varata alla fine della scorsa legislatura ha rappresentato, in tal senso, un compromesso tra gli infanticidi e coloro i quali volevano salvare la sostanza della lunga transizione italiana. Essa, infatti, ha spazzato via il “maggioritario imperfetto” introdotto dal Mattarellum senza però abbandonare il “meccanismo maggioritario”. Grazie al premio di maggioranza, bipolarismo e scelta diretta del governo da parte degli elettori sono stati posti in salvo nonostante il ritorno alla proporzionale. Non si è trattato di un cattivo compromesso. Il suo più evidente vulnus risiede nella mancata previsione di un premio di maggioranza nazionale al Senato, corrispondente a quello assegnato alla Camera dei Deputati. E questa debolezza fu provocata dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che impose una lettura a dir poco formalistica del dettato costituzionale. Oggi c’è chi cerca di smentire tale interpretazione ma, sul punto, sarebbe interessante raccogliere anche le testimonianze delle altre alte cariche dello Stato allora in servizio.

In Italia, però, dai tempi di Giolitti l’invettiva contro la legge elettorale in vigore è il principale sport nazionale dopo il calcio. Impossibile che da questa moda si salvasse l’ultima riforma. Grazie anche ad alcuni padri della legge, che con espressioni quanto meno avventate hanno accreditato “la porcata”, il referendum agli esordi rischiava di presentarsi come una chiamata alle armi contro lo scempio prodotto da Forza Italia e dalle destre. Si trattava di un’evidente forzatura politica. Non solo perché il risultato della riforma è stato tutt’altro che spregevole (il Paese, fino a prova contraria, ha un governo legittimo nonostante sia uscito dalle urne una situazione di sostanziale parità). Ma anche perché il referendum non fuoriesce dal solco della riforma. Esso prevede infatti una soluzione che, in teoria, trasferendo il premio di maggioranza dalla coalizione alla lista più votata, aumenta il tasso di maggioritario e mette un freno alla frammentazione.

Ciò in teoria. Perché, in pratica, sul risultato positivo che si avrebbe con il referendum è lecito avanzare più di qualche dubbio. In primo luogo, anche il “maggioritarista” più convinto sa che è necessario mettere un limite al premio. Se quella legge fosse stata in vigore alle ultime elezioni, il premio sarebbe andato a Forza Italia che con circa il 22% dei voti si sarebbe trovata ad avere il 55% dei seggi. La giustizia dei numeri, nel considerare i sistemi elettorali, non deve considerarsi un obbiettivo perché la loro funzione è innanzi tutto quella di garantire il governo del Paese. Ma c’è un limite che non può essere oltrepassato se non si vuol provocare un rigetto del senso comune. Si obbietterà: se il referendum producesse una legge conseguente, i partiti non sarebbero quelli di oggi perché si verificherebbero delle aggregazioni sia a destra sia a sinistra. Volesse il cielo: da sempre sono un fautore di grandi partiti di coalizione nei quali, come nel mondo anglosassone, sappiano convivere ispirazioni ideali diverse. Ma so bene che quest’obbiettivo passa per una lenta e penetrante riforma della cultura politica. Non lo si può conseguire attraverso la minaccia della ghigliottina. Perché, in questo caso, la frammentazione cacciata dalla porta rientrerebbe dalla finestra: i piccoli partiti farebbero valere il loro peso al momento della formazione delle liste. E poi, a elezione svolta, al momento della formazione dei gruppi parlamentari, si assisterebbe al “tana libera tutti”.

Giunto a questo punto, è lecito che mi si faccia una domanda: “ma allora, se la pensi così perchè, seppur defilato, hai accettato di entrare a far parte del Comitato referendario?” Per due ragioni. In primo luogo perché al tempo nel quale giunse la proposta, l’ingresso di una rappresentanza di Forza Italia fermò l’operazione di criminalizzazione della riforma approvata nell’ultima legislatura. E fece emergere un’evidenza: con il referendum non si sarebbe potuto prescindere del tutto da quella riforma. In secondo luogo perché è in atto uno scontro sotterraneo tra quanti vorrebbero “riformare la riforma” mantenendo quanto meno inalterato il tasso di “maggioritarismo” e chi, invece, intende la legge odierna come una tappa intermedia verso il ritorno al proporzionale più puro. In questo scontro io sto dalla parte dei “maggioritaristi”, così come la gran parte del mio partito. Il referendum ci dà forza. La “bozza Chiti”, nelle sue linee generali, è una soluzione accettabile che si presenta come una razionalizzazione dell’esistente. I problemi che presenta sono di dettaglio, anche se non secondari e su di essi non si mancherà di tornare in una prossima occasione. Ma, per l’essenziale, se dovesse essere approvata, l’Italia resterebbe un Paese tendenzialmente bipolare nel quale il governo è ancora scelto dagli elettori. Non sarà facile. Ma se c’è una speranza che vada a finire così è solo perché, per quanto esteticamente deprecabile, pende sul capo dei “piccoli” – a destra così come a sinistra – la mannaia del referendum.