Perché un liberale risorgimentista nutre perplessità sulla festa del 17 marzo

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Perché un liberale risorgimentista nutre perplessità sulla festa del 17 marzo

06 Febbraio 2011

L’amico e collega Giovanni Belardelli, una delle migliori firme del ‘Corriere della Sera’, si lamenta, sulle colonne del quotidiano di Via Solferino, degli imprenditori italiani, in primis Emma Marcegaglia, che trascurano l’unità d’Italia e non intendono rinunciare per essa a una giornata di lavoro (il 17 marzo). Proprio perché “ci troviamo a ricordare i 150 anni dell’Unità nazionale in un momento assai critico per il paese”, scrive lo storico, è tanto più essenziale “che la Confindustria si percepisca non soltanto come il ‘sindacato’ degli industriali, ma anche come un pezzo rilevante della classe dirigente italiana, unendosi senza mugugni e riserve alle celebrazioni del prossimo 17 marzo”. Capisco la critica e l’amarezza ma non riesco a condividerle. Questo chiamare a raccolta la classe politica e la classe dirigente affinché diano un segnale civile e patriottico alle masse italiane incerte, divise e sbandate urta frontalmente con la mia concezione qualunquistica e plebea della democrazia. I segnali forti che John Doe è disposto ad apprezzare sono quelli dei politici che si pongono alla testa dei cortei già in marcia non quelli dei politici che raccolgono i cittadini perché formino i cortei e “si diano una smossa”. Dietro le considerazioni di Belardelli vedo spuntare—anche se, conoscendolo bene,la sua ‘filosofia della democrazia’ non è quella giacobina— l’ombra di una ‘pedagogia politica’(la forza dell’esempio) che ci riporta a vecchi, italici, costumi della mente e del cuore.

 In realtà, il problema vero, al quale rinvia poi l’articolo, è quello della ‘festa nazionale’, dei suoi significati e dei contenuti etici che la giustificano. A questo riguardo, potrebbe essere utile introdurre alcune utili distinzioni, atte a spiegare meglio il dissenso’liberale’ dalle tesi di Belardelli. Per semplificare, le feste pubbliche potrebbero dividersi in cinque categorie: le feste naturali, le feste religiose, le feste ludiche, le feste civili e le feste pubbliche.

 Le feste naturali, le più sentite, sono quelle che ‘salutano’le stagioni e registrano i ritmi inarrestabili del tempo: la primavera, l’estate, l’autunno, l’inverno. La più amata, nei paesi occidentali, è quella ‘confluita’ nella festa religiosa per eccellenza, il Natale. L’albero e il presepe sono i simboli di un felicissimo connubio che, almeno per un giorno, riesce a intenerire persino agnostici e non credenti.

 Le feste religiose, si sa bene cosa sono: commemorano episodi esemplari della vita del Redentore, della sua famiglia, dei suoi apostoli etc. Nelle comunità, soprattutto agricole, di epoche passate erano associate spesso ai pellegrinaggi nei santuari storici ed erano importanti fattori di identità se associate alla venerazione dei santi patroni.

 Le feste ludiche—v. il carnevale—sono esplosioni di gioia collettiva, trasgressioni controllate accompagnate non di rado da riti di capovolgimento (es. il portinaio vestito da principe), e spesso rappresentano una sorta di valvola di sfogo del malcontento sociale.

 Le feste civili non hanno nulla a che fare né con la natura, né con la trascendenza, né con la libera uscita data alla protesta dei sudditi ma, semmai, con quel tipo di religione che si definisce appunto “civile”. In parole semplici, esse rievocano la fondazione—il 2 luglio negli Stati Uniti—o la rifondazione—il 14 luglio in Francia—della “comunità politica”–stato nazionale o federale che sia. Si tratta di feste che non dividono ma sottolineano una concordia degli animi, una volontà di continuare a vivere insieme, non disgiunta dall’orgoglio della’’appartenenza e della differenza.

Le feste civili vanno rigorosamente distinte da quelle politiche—con buona pace di una storiografia superficiale che tende ad assimilarle (v. Emilio Gentile). Le seconde non benedicono l’esistente ma per così dire, “manifestano”, chiamano a raccolta per un progetto collettivo: non rispecchiano sentimenti diffusi o credenze radicate negli animi ma vogliono ingenerare abiti di virtù, cittadini esemplari, nuovi modelli di umanità. E’ in questa ispirazione pedagogica il loro coté giacobino e antidemocratico. Le feste politiche rientrano nel più vasto programma di “riforma morale e intellettuale” di un popolo e, in quanto tali, mirano a cambiare ab imis il mondo che trovano. E’ questo il significato della festa fascista del 21 aprile (Natale di Roma) e, senza offesa per nessuno, rischia di essere, in parte, il significato (oggettivo) della festa che si vuole istituire per ricordare i 150 anni dell’unità d’Italia.

 Per non essere frainteso, avverto subito che– a differenza di tanta storiografia e pseudo storiografia cattolica, neo-borbonica, marxista, rivoluzionaria, anarcopopulista, etc.– ritengo il Risorgimento italiano uno dei momenti più alti della nostra storia millenaria. Fu allora che il paese si ricongiunse “all’Europa vivente” e che rifiorirono le arti, le scienze, la letteratura Ad attivare tale rinascita furono la rivoluzione francese e l’invasione napoleonica che, nonostante le violenze e le spoliazioni, creò un clima spirituale in cui si formarono ferventi patrioti : poeti e scrittori come Foscolo, Leopardi e Manzoni; intellettuali militanti come Mazzini, Cattaneo, Ferrari; filosofi come Rosmini, Gioberti, Lambruschini; statisti come Cavour, Ricasoli, Minghetti etc. Per non parlare dei giuristi, degli scienziati, dei musicisti.

 Il grandioso risveglio, però, non riuscì a diventare popolare, ad essere avvertito dalle masse urbane e rurali come conquista civile, patrimonio comune. Non sono (soltanto) i monumenti e le ricorrenze nazionali a produrre il senso della “comunità di destino” ma la sensazione di stare davvero meglio, di una nuova abitazione politica soddisfacente e irrinunciabile. A soffocare sul nascere tale sensazione erano tre fattori egualmente importanti:

–le risorse materiali, che avrebbero dovuto elevare il tenore di vita degli italiani;

–le risorse istituzionali—che avrebbero dovuto assicurare le garanzie della libertà e una lotta per il potere aperta e competitiva; e, infine,

–le risorse spirituali—che avrebbero dovuto alimentare una cultura politica realistica, portata a vedere nella società civile e nella tutela dei diritti individuali e non nei governi e nelle amministrazioni pubbliche i motori di ogni progresso sociale e avanzamento civile.

 Questi tre fattori sono stati carenti, in misura più o meno rilevante, e certo non è questa la sede per spiegarne le ragioni. Va rilevato, nondimeno, che l’Italia unita non tornò indietro: la sua economia, il suo esercito, la sua flotta le assicurarono uno status di grande potenza, l’”ultima delle grandi potenze”, come si disse, ma pur sempre una grande potenza; la sua incerta democrazia parlamentare lasciò sempre a desiderare—v. i magistrali studi di Giuseppe Maranini sulla storia del potere in Italia—ma il suo sistema politico rimase libero e pluralistico; la sua cultura, anche in età positivistica, restò solidamente agganciata a quelle francese, inglese e tedesca. Le ombre, tuttavia, nascondevano le luci, causando, in ampi strati sociali, un’apatia e un’alienazione alle quali si cercò invano di rimediare con ritualità politiche e monumenti rozzamente grandiosi o ‘sansirobabilonesi’ (l’aggettivo è di Antonio Cederna)—valga per tutti l’Altare della Patria—che, a dir poco, non riuscivano a riscaldare i cuori. Le cerimonie pubbliche, per lo più, venivano percepite come i ‘precetti pasquali’ delle scuole medie degli anni cinquanta: qualcosa di coatto, di deciso dall’alto cui ci si doveva adeguare per impedire che le famiglie venissero segnate a dito come asociali se non pericolose.

 

 Nel tentativo, perseguito talora con grande serietà e determinazione, di creare una legittimità riferita alla nazione, il regime fascista moltiplicò i luoghi e i riti dell’idillio comunitario sennonché la sua non era una religione civile, intesa a trasfigurare l’esistente in tutta la gamma pluralistica delle sue espressioni sociali, culturali, politiche, religiose, ma una religione politica proiettata verso l’avvenire e desiderosa di “rifare gli Italiani”, di costruire quell’uomo nuovo al quale Renzo De Felice e i suoi allievi—raccolti ora in ‘Nuova Storia Contemporanea– riservarono tante acute riflessioni. Quel che di artificioso e di freddo si avvertiva nelle feste nazionali dell’Italia umbertina cedette il posto a una “organizzazione dell’entusiasmo” che si tradusse in una vera e propria “pedagogia delle masse”, con il Minculpop come istituzione di riferimento.

 Con la fine del regime, si volle ritornare a un patriottismo blando e innocuo da ‘religione civile ma la fanfare dei bersaglieri e la deposizione di corone d’alloro sulla tomba del milite ignoto sembravano stanche ripetizioni di feste proprie di un’epoca tramontata per sempre. Alla ‘morte della patria’, su cui hanno scritto Ernesto Galli della Loggia ed Elena Aga Rossi, si aggiunse in seguito, con Tangentopoli e la fine della prima repubblica, una crisi profonda del ‘regime politico’ destinata a rimettere in questione la stessa ‘comunità politica’, sicché oggi si potrebbe quasi parafrasare il titolo del noto saggio di Andrej Amalrik: sopravvivrà l’Italia per un altro decennio?

 In questo contesto politico e culturale, la proposta di celebrare il 17 marzo mi trova molto ma molto perplesso. Sarebbe l’ennesima festa ‘fredda’, accolta dall’uomo della strada come un regalo, sì, (“che bello non dover andare al lavoro!”) ma imposto (“Ci vogliono far festeggiare i 150 anni e vabbene gli è venuta in mente anche questa!”).

 No, la “democrazia dei moderni” è incompatibile col giacobinismo democratico: come ho tante volte ricordato su queste colonne, è registrazione (rispettosa) dell’esistente non impegno a renderci tutti più virtuosi (l’immarcescibile ideale degli intellettuali azionisti, soprattutto torinesi).

 Personalmente non mi accontenterei neppure di una celebrazione dell’unità d’Italia una tantum, in occasione dei 150 anni, ma vorrei che tutti gli anni si potesse festeggiare il 1861 a una data fissa. A patto, però, di essere certi che tale ricorrenza parli davvero ai cuori, risvegliando sentimenti sopiti d’amor patrio e, insieme, il legittimo orgoglio di aver avuto connazionali di nome Cavour e Mazzini, Verdi e Manzoni. Ma così non è e allora non sarebbe meglio prendere in considerazione le riserve dei Bossi, delle Marcegaglia, degli altri scettici di destra e di sinistra, per nulla commossi dal ‘mito risorgimentale’? Non sarebbe meglio archiviare la pratica e non pensare più al 17 marzo? Per un vero liberaldemocratico, una festa poco ‘sofferta’ e partecipata sarebbe come, per un cattolico sincero, una messa alla quale i più assistono per imposizione di legge o per conformistica pressione dell’opinione pubblica.

Diversi anni fa presi parte a un tour in Austria, di quelli a prezzi stracciati. La comitiva era composta da piccoli borghesi agiati—negozianti, artigiani, qualche ragioniere etc.—di modesta cultura e non poco rustegùn . Sulla via del ritorno, ci fermammo a pranzo in un ristorante proprio quando RAI Uno mandava in onda la cronaca delle celebrazioni romane del 25 aprile—sfilate, discorsi dei presidenti del Consiglio e della Repubblica etc..Del servizio televisivo ai miei compagni di viaggio non gliene poteva importare meno e così continuarono a chiacchierare tranquillamente. Oggi sulla ‘guerra civile’ ho un’opinione ‘politicamente scorretta’—soprattutto per colpa dei libri di Giampaolo Pansa–ma allora fui molto irritato dall’indifferenza di quei cafoni piccolo-borghesi. Chiesi loro di ‘non disturbare’ e mi piantai, compunto, davanti al televisore come se partecipassi anch’io idealmente alla ritualità resistenziale e pretendessi che anche gli altri facessero lo stesso. A ripensare al mio atteggiamento, me ne vergogno non poco: nella comitiva, infatti, il vero fascista ero io. Il mio gesto, infatti, non si differenziava poi molto da quello del camerata Aldo Fabrizi, che, in un divertente film degli anni ‘50, costringeva, con uno schiaffo, l’”uomo qualunque” Totò a togliersi il cappello durante la sfilata dei gagliardetti.

La lezione democratica che dobbiamo imparare non è il rispetto dei simboli ma il rispetto delle persone. E se è vero che la democrazia è impensabile senza una “base comunitaria” (e come tale ‘a-razionale’) è altresì vero che i sentimenti di cui è fatta quella base debbono germogliare dal basso, non essere colati dall’alto con gli strumenti classici della ‘nazionalizzazione delle masse’.

Se lo Stato intende davvero “esortare”, foscolianamente, gli Italiani “alle storie”, che contribuisca a rimettere in libreria le grandi opere—testi e studi—dedicate al Risorgimento. Perché, ad esempio, non rendere omaggio al più grande storico italiano della seconda metà del ‘900, Rosario Romeo, l’autore del monumentale Cavour e il suo tempo e di altri fondamentali studi di storia risorgimentale, ripubblicandone l’opera omnia? Perché non finanziare la ristampa dei lavori magistrali di Adolfo Omodeo, di Gioacchino Volpe, di Gaetano Salvemini sugli anni della preparazione e del compimento dell’unità d’Italia? Perché non ripristinare, nelle facoltà umanistiche, le cattedre di ‘Storia del Risorgimento’, scomparse persino nelle città di Giuseppe Mazzini (Genova), di Camillo Benso di Cavour (Torino), di Carlo Cattaneo (Milano), di Bettino Ricasoli (Firenze)?

Lo Stato non ha il compito di attivare ‘buoni sentimenti’ con finanziamenti di film agiografici e sintonizzati con l’ideologia vincente al momento—v. Noi credevamo di Martone–, di documentari televisivi trasmessi nelle ore di minor ascolto, di festività che fanno la gioia dei gestori delle balere e dei fornitori dello sballo—oltre, naturalmente, a gonfiare i petti dei megaretori nazionali come Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, il ‘restauratore’ dell’Inno di Mameli).

Lo Stato deve provvedere ai “magazzini della conoscenza”, istituire premi e borse di studio per chi sia interessato a studiare i tempi e i modi della “costruzione della nazione”, valorizzare gli Istituti storici e, in particolare, quelli legati ai nomi dei protagonisti del Risorgimento.

Quando, col tempo, com’è auspicabile, saranno passate le sbornie pseudo-revisionistiche, quando il secessionismo del Nord sarà un pallido ricordo e quello del Sud occasione unicamente di riso (amaro), quando gli Italiani avranno imparato ad essere più generosi ed equanimi verso i protagonisti delle guerre d’indipendenza—come si conviene a figli riconoscenti che non ignorano i difetti di chi li ha messi al mondo–, quando, finalmente, anche le luci e non solo le ombre verranno ricordate, allora, forse, anche noi potremo avere una giornata come l’Independent Day o il 14 luglio. Ma sarà allora una festa non divisiva (come le due feste di aprile: il 21—Natale di Roma– e il 25—Anniversario della Liberazione) ma amata e partecipata, in quanto iscritta naturaliter nell’immaginario popolare e non abito imposto dal potere—e per giunta, da un potere sempre meno forte e ‘accreditato.

Forse (….un altro “forse” doveroso) quel tempo non verrà mai ma se così fosse—ed è proprio il caso di dire”quod Deus avertat”–una festa come il 17 marzo—quand’anche si riuscisse a istituirla, cosa peraltro abbastanza probabile—verrebbe ricordata come il tentativo patetico di rianimare un cadavere. Altro motivo di profonda tristezza per un liberale, come lo scrivente, che non riesce a trattenere la commozione quando mette piede al ‘Cambio, il ristorante torinese preferito dal Gran Conte.