Perché Veltroni non lo ha detto trent’anni fa che Pol Pot è stato come Hitler?
04 Novembre 2007
Auschwitz
come la Cambogia di Pol Pot, l’importante è condannare i totalitarismi. A dirlo
è lo stesso Walter Veltroni, leader del Partito Democratico, erede diretto
della tradizione del PCI. Dunque questa è forse la volta buona che il messaggio
anti-totalitario passi senza essere tacciato di “grezzo comparativismo” o di
“criminale revisionismo storico”.
In
particolare, lo scorso 29 ottobre, in occasione della presentazione del libro
“L’illusione del bene” di Cristina Comencini, ha dichiarato che: “Ho visto le
foto dei campi di concentramento di Pol Pot. Erano delle foto agghiaccianti,
non diverse da quelle che tra 10 giorni troverò andando ad Auschwitz. Sono
diversi i colori delle bandiere, diverse le motivazioni, ma la vita di quegli
esseri umani è la stessa”. Certo viene da chiedersi: poteva pensarci prima?
Riconoscere la brutalità dei regimi comunisti oggi è un dovere storico, ma non
si può fare più nulla per il milione e mezzo di vietnamiti, per i due milioni e
mezzo di cambogiani e le decine di milioni di russi ed europei orientali (60
milioni solo nell’ex Urss) assassinati dai loro stessi regimi. Nel 1975, si
poteva ancora fare qualcosa. Si potevano far conoscere gli orrori del Sud-Est
asiatico conquistato dai comunisti manu militari, si poteva agire direttamente
per ospitare i rifugiati politici dell’Est europeo, si poteva premere sul
governo per un’azione comune con gli Stati Uniti, per lanciare un messaggio
chiaro all’Unione Sovietica e non permetterle di annettere tutta l’Asia
sud-orientale. In parole povere: un vero democratico, negli anni ‘70, avrebbe
dovuto essere in prima linea nella lotta contro le dittature comuniste, oltre
che contro le dittature di destra. Ma cosa scriveva e pensava Veltroni mentre,
sotto gli occhi di tutto il mondo, i Nord Vietnamiti conquistavano militarmente
Saigon e i Khmer Rossi (che fino a quel momento erano stati appoggiati dal
Vietnam del Nord), un mese dopo, prendevano Phnom Penh?
Veltroni, che ora
dichiara di non essere mai stato comunista, nel maggio del 1975 , su “Roma
Giovane” (il mensile della FGCI), scriveva che: “I compagni vietnamiti ci hanno
detto: ‘La nostra lotta è giusta, uniti vinceremo’. Ed hanno sconfitto la
grande potenza americana e sono entrati a Saigon dove lavorano per costruire un
Vietnam pacifico e indipendente”. E poi andava avanti nell’apologia del regime
stalinista vietnamita (responsabile di 1 milione e mezzo di morti, prima,
durante e dopo la Guerra del Vietnam), scrivendo che: “I soldati del GRP hanno
scritto le parole che Ho Ci Min pronunciò nel ´68 prima dell´offensiva del TET:
‘Questa primavera sarà migliore di ogni altra; la notizia delle vittorie
riempie di gioia tutto il paese, Nord e Sud, gareggiando in coraggio
sconfiggono lo Yankee. Avanti, la vittoria è nelle nostre mani’. L’Indocina, l´Africa,
l´America latina, la Cina, Cuba Socialista, il Portogallo, la Grecia, i paesi
socialisti dell´Est europeo, tutto il mondo si colloca sulla strada della
libertà e del progresso. Libertà, progresso, giustizia sociale, valori che si
affermano in dimensioni sempre più ampie tra i giovani e che vanno tutte nella
direzione del socialismo. Esso, lo sappiamo, non è dietro l´angolo. Coscienti
di questo nel chiedere ai giovani il voto al PCI sentiamo di dover proporre
qualcosa di più: un impegno coerente di coscienza e di lotta. Questa è la linea
che prospettiamo ma non ne esistono, ne siamo convinti, altre”.
In questi
scritti non c’era alcun dubbio sull’immacolata concezione dei regimi comunisti,
né c’era alcuna ammissione dei loro crimini. Anzi, nello stesso articolo, “I
giovani, la libertà, il socialismo”, il giovane Veltroni rispondeva, a chi gli
ricordava la natura criminale di quei regimi, che: “Ogni volta che tra i
partiti politici si parla di socialismo alcuni di essi, in primo luogo la DC,
partono in voli pindarici descrivendo a tinte fosche, come in un libro di
Carolina Invernizio (romanziera gotica di fine ‘800, ndr), il carattere
dittatoriale e le soppressioni della libertà che a parere loro (sic!)
vigerebbero nei paesi socialisti. Non abbiamo mai esitato a far sentire alta la
nostra voce quando abbiamo ritenuto che in questo o quel paese un intervento
esterno comprimesse la libertà di quel popolo, così come non abbiamo mai
mancato di sviluppare un dibattito serrato sulle questioni della democrazia socialista.
Ma sempre in questi dibattiti si è affermato il carattere franco e aperto che
caratterizza le discussioni tra partiti fratelli (quelli dell’Urss e dei paesi
del Patto di Varsavia, ndr)”.
Sarà
utile, oggi, piangere sul latte versato? Sì, sempre che si ammetta che di latte
ne è stato versato parecchio. Praticamente nessun comunista, a parte Massimo
Caprara e pochissimi altri, ha pronunciato le due parole magiche “ho
sbagliato”. Ma forse i tempi sono ancora poco maturi, anche se sono passati ben
diciotto anni dal collasso del sistema comunista europeo. Infatti sono bastate
le parole di Veltroni per far scattare la reazione di Marco Rizzo, del Partito
dei Comunisti Italiani: “Sul comunismo, o ignora la storia, o è
intellettualmente disonesto: quelle dittature (Hitler e Pol Pot, ndr) sono
state battute dagli eserciti di due Stati comunisti, l’Armata Rossa e
l’Esercito Popolare Vietnamita”. Forse Rizzo vuole ricordare a Veltroni che
cosa scriveva sui comunisti vietnamiti solo un trentennio fa. Ma qui si passa
dalla farsa alla tragedia, perché rivendicare l’eredità della “liberazione”
comunista dell’Europa orientale e della Cambogia, vuol dire anche ereditare la
responsabilità del bagno di sangue che ne è seguito. In Cambogia, il Vietnam
comunista (e filo-sovietico) sconfisse rapidamente il regime comunista (ma
filo-cinese) di Pol Pot nel 1979, instaurò un regime fantoccio guidato da
Samrin (un Khmer Rosso convinto, rivale personale della cerchia di Pol Pot) che
non ripristinò affatto le libertà perdute dai cambogiani, ma completò il
genocidio, facendo altri 230.000 morti in poco meno di un decennio.
Ci vuole
ancora più coraggio a rivendicare la “liberazione” dell’Europa orientale da
parte dell’Armata Rossa. Scacciato il nazismo, i Sovietici instaurarono, una
dopo l’altra, le dittature che avrebbero sottomesso mezza Europa fino al 1989.
Il processo di trasformazione dell’Europa orientale fu sanguinosissimo: 1
milione e mezzo di cittadini di origine tedesca fu ucciso nel corso delle
espulsioni massicce da Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Slovenia e Croazia. I partigiani polacchi vennero sistematicamente internati nei
campi di concentramento gestiti direttamente dall’NKVD (l’antenato del KGB) e
potevano scegliere fra l’arruolamento delle formazioni filo-comuniste del
generale Berling, costituitesi su ordine di Mosca, o la deportazione. Le cifre
della deportazione sono ignote: si conosce il numero di coloro che giunsero
vivi nei gulag sovietici, ma non delle migliaia (decine di migliaia?) che
perirono durante il viaggio. Si va da una stima minima di 20.000 a un massimo
di 55.000 deportati. A questi vanno aggiunti altri 25.000-30.000 cittadini
polacchi di etnia tedesca, molti dei quali non erano nemmeno collaborazionisti:
basti pensare che almeno la metà di questi erano minorenni. Anche
nella piccola porzione di Cecoslovacchia, “liberata” dai Sovietici
durante la guerra, finirono nei gulag 40.000 persone, per motivi che variavano
dall’accusa di collaborazionismo al semplice fatto di essere giudicati
“borghesi”.
Passando a quelle che erano considerate nazioni nemiche
dall’Unione Sovietica, perché erano alleate con la Germania nazista,
l’occupazione dell’Armata Rossa costò moltissimo in rapporto alla popolazione.
In Ungheria scomparvero 600.000 abitanti, su una popolazione che allora contava
9 milioni di anime e la cifra, come nel caso delle deportazioni dalla Polonia,
non tiene conto di coloro (forse la maggioranza) che perirono durante il
viaggio verso i gulag. In Bulgaria, Paese che non aveva partecipato direttamente
alla guerra e non aveva inviato truppe contro l’Unione Sovietica, si scatenò
quella che viene ricordata dai testimoni col nome di “epurazione
selvaggia”: circa 40.000 “nemici di classe” (sacerdoti, giudici,
industriali, giornalisti, politici non comunisti) trucidati in pochi mesi
dall’Armata Rossa. Una bella eredità di cui vantarsi, non c’è che dire.