Perché Victor Zaslavsky mancherà molto a chi ama la libertà
30 Novembre 2009
Victor non ha avuto una vita facile. E’ stato un viaggiatore del Novecento che si è costruito, con pazienza, tenacia e un briciolo di fortuna un’uscita di sicurezza dalle ombre più buie di quel secolo.
E’ nato a San Pietroburgo, allora Leningrado, nel 1937: un anno orribile dello stalinismo. Nell’Unione sovietica è stato ingegnere minerario, sballottato in lungo e largo per tutto il Paese. Studiando di notte si è laureato in sociologia ed è entrato all’università. Nel periodo di Breznev ha visto gli spazi progressivamente venir meno, fino ad essere costretto a scegliere la strada del fuoriuscitismo: opzione non facile, dolorosa, ma a un certo punto senza più alternative.
Me ne ha parlato una sola volta. Mi raccontò di quando, il giorno prima della partenza, dovette dirlo a Sasha, suo figlio. Ricevette in risposta un silenzio e una sola lacrima. E’ quanto bastava a Victor per fissare un’intesa. Perché Victor era uomo di poche parole. Non amava aprirsi. Aveva conosciuto la sofferenza e, per questo, preferiva trattare gli aspetti anche più problematici della vita prendendoli di tre quarti, di sottecchi, ricorrendo all’ironia.
Anche della scelta di abbandonare il suo Paese ci ha lasciato una testimonianza ironica in uno dei racconti che compongono Il dottor Petrov parapsicologo, la raccolta pubblicata dall’editore Sellerio nel 1984. In “Gli stivali di Stalin” accenna alla “fuga senza fine” che, dopo la scelta di abbandonare l’Unione Sovietica, si inaugurò per lui e per la sua famiglia. Fino all’approdo all’università di St. John’s in Canada, dove nel corso di un meeting studentesco gli si pararono davanti le effigi di Marx, Lenin e Stalin. Allora si sentì scrutato, in particolare da Stalin, quasi gli volesse dire: “Credevi di svignartela. Sei giunto fino a qui, ma non mi sei sfuggito!”.
E invece Victor è sopravvissuto non solo agli orrori del post-stalinismo, ma anche al Novecento, con l’intelligenza che gli ha dato la capacità di scorgerne l’eredità ma di comprendere anche i problemi del nuovo secolo che gli si spalancava davanti.
Ciò da cui non è sfuggito, perché non voleva sfuggirvi, era il suo passato. Nel suo approccio alla vita, nella sua capacità di comprenderla, in quel fare apparentemente distaccato di chi, in mezzo alla scena, appare come seduto sul ramo di un albero, spettatore consapevole della commedia umana, c’era tanto di quella Russia che il comunismo non era riuscito ad estirpare.
L’attaccamento di Victor alla sua patria traspariva da piccoli particolari: dalla costante premura di aiutare gli amici intellettuali che in Russia erano invece rimasti e per questo versavano in condizioni materiali peggiori delle sue; dall’immedesimarsi nel loro stile di vita quando andava a trovarli, accettandone un’accoglienza che a volte era anche foriera di disagi, pur di non ferire la loro suscettibilità e non alterare il piano della reciproca e paritaria ospitalità. E traspariva anche dalla caparbietà con la quale alimentava i rapporti importanti. Quello con Sasha e con i suoi nipotini, gli adorati Misha e Masha, dei quali è voluto essere nonno fino in fondo. Quello con gli amici sparsi in tutto il mondo, e con i quali ha intessuto relazioni tanto resistenti che nessuna distanza è mai stata sufficiente ad interrompere. Quello con i luoghi che amava e che erano stati importanti per la sua vita. Come St. John’s, dove tutte le estati tornava nella stagione dei funghi. Victor, insomma, anche quando la sua fuga senza fine è finita, ha saputo mantenere intatto tutto il suo mondo, con l’aiuto di Elena che in ciò l’ha incoraggiato e sostenuto.
Ma l’aspetto della sua personalità più peculiare è un altro: il suo apparente distacco, il suo badare alla sostanza, il suo realismo facevano in realtà velo a una propensione quasi fanciullesca all’entusiasmo: un misto di ingenuità e di curiosità. Questo particolare stato d’animo che lo contraddistingueva mi richiama negli occhi tante immagini, ma dall’albo dei ricordi vorrei trarne tre, risalenti al periodo in cui Victor, insieme ad Elena, era visiting professor a Stanford, ed io fui ospite per alcuni giorni nella loro casa, in attesa che il mio appartamento fosse pronto.
Vidi allora Victor respirare, come mai più mi sarebbe capitato, a pieni polmoni l’aria della libertà. Ricordo la sua trascinante ingenuità quando mi mostrava il fuoco finto in un caminetto che si accendeva da un interruttore. Mi è rimasta impressa la felicità con cui prendeva parte alla vita del campus. E il contagioso entusiasmo col quale, quando si andava in gita, fotografava la California, affascinato dalla natura e dagli animali: i suoi preferiti erano i leoni marini della baia di Monterey.
Erano i primi anni Novanta. Era da poco caduto il Muro e Victor era allora uno dei sociologi più ricercati dalle università americane. Perché era uno dei pochi che avevano previsto quell’esito. La sua analisi del crollo aveva un sapore tocquevilliano, del Tocqueville di “dall’Ancien regime alla rivoluzione”, perché coglieva l’aspetto strutturale della crisi dell’impero sovietico. Quanto, cioè, la rottura finale fosse dovuta a cause che in realtà affondavano nel tempo, e che lui sintetizzò nella categoria della contro-modernizzazione: quella per cui il sistema del partito unico e i suoi legami con il complesso militare-industriale da una certa fase in poi avrebbero portato ad un arretramento progressivo delle condizioni del Paese, mettendo in crisi l’accordo tra le diverse nazionalità che inevitabilmente, al cospetto degli effetti di questa progressiva regressione, si sarebbe infine spezzato.
Victor riteneva insomma che il virus della gerontocrazia che aveva colpito la dirigenza del Pcus da Breznev in poi non fosse altro che l’aspetto esteriore di una crisi strutturale più profonda. Per questo, non credette neppure per un istante che Gorbaciov ce la potesse fare. Contro l’ultimo segretario del Pcus congiurava la sua storia: una storia che egli avrebbe voluto razionalizzare e che invece era minata alle fondamenta.
Nondimeno, per Victor l’elemento personale contava. Come ogni storico di razza sapeva che le idee e i progetti camminano sempre sulle gambe degli uomini, e che anche gli orrori del Novecento erano stati tali perché le idee del secolo avevano trovato grandi, tragici interpreti. Ed è per questo che mentre non ebbe remore a stroncare la sua figura di riformatore, avrebbe attribuito poi a Gorbaciov, sulla base di documenti e testimonianze, tutto ciò che gli spettava per aver consentito che l’ultimo atto si compisse senza spargimento di sangue: un esito affatto scontato. Il Gorbaciov di Zaslavsky, insomma, ha una cifra di drammatica grandezza: quella che solo i romanzi russi sanno offrirci. E’ colui che accompagna il corso della storia anche a prezzo della sua personale sconfitta storica.
Quando nel 1994 Victor approdò alla Luiss, dunque, era un intellettuale di livello mondiale. Lo vollero, per chiara fama, innanzi tutto Dario Antiseri e Luciano Pellicani. Ma non vi sarebbe giunto senza l’aiuto di Giovanni Nocco. Ha dato tanto alla sua università, nell’insegnamento e nella ricerca. Non si è mai integrato fino in fondo, invece, nella vita accademica. Quella italiana gli pareva asfittica, troppo attenta al potere e per questo esposta al rischio di smarrire la dimensione più importante che il mestiere di ricercatore può offrire: la libertà.
Anche nel rievocare questo suo disagio, mi torna alla mente un’immagine intrisa d’ironia. Un giorno, in consiglio di facoltà si discuteva dell’introduzione di una materia alla quale lui si opponeva fortemente, considerandola una inutile frammentazione del sapere. Ma quando gli fu detto che l’inserimento non era in programma per il successivo anno accademico ma sarebbe stato posticipato nel tempo, la sua avversione si placò. Alla fine della riunione gli chiesi conto di tanta arrendevolezza, e lui mi fulminò con questa battuta: “Io vengo dalla Russia, so bene che fine fanno i piani quinquennali a cui voi universitari italiani siete così attaccati”.
Furono questi gli anni nei quali la sua attenzione si concentrò sugli archivi sovietici, che in quelle temperie erano più accessibili di oggi. Uscivano allora le prime sintesi del Novecento dalle penne di Furet e di Hobsbawm. Victor capì, e ci fece capire, come oltre le sintesi ci fosse la storia di un secolo da riscrivere. E lo si sarebbe potuto fare sulla base dei documenti, che avrebbero confermato o smentito quelle che fino ad allora erano state analisi a sfondo ideologico.
Victor ha subìto il comunismo e lo ha combattuto, ma la cifra principale del suo impegno intellettuale non è stata l’anticomunismo. E’ stata la verità. Una verità che egli voleva fosse letta in un orizzonte più ampio di quello descritto dalle baruffe politico-ideologiche di casa nostra.
In questa prospettiva l’incontro umano e intellettuale con Elena Aga Rossi, storica della guerra fredda e colei che, nel panorama della storia politica italiana, aveva tra le prime trasceso i confini della penisola, si è rivelato un incredibile propellente. Il loro “Togliatti e Stalin” rimarrà un caposaldo della storiografia. Non solo perché vi si rintraccia la prova di dove fu elaborata e da chi venne dettata la svolta di Salerno. Assai di più perché esorta a leggere le vicende del Partito comunista italiano nell’ambito delle dispute mondiali del Ventesimo secolo e della complessità del sistema staliniano.
Victor, con la sua opera, ha contribuito a trasformare una storia a sfondo prevalentemente ideologico, che assecondava innanzi tutto il bisogno di una sub-cultura, in una storia di ampio respiro che serviva prima di ogni altra le ragioni della scienza storica. Si consideri a tal proposito l’importanza che egli ha attribuito, nel discernimento delle vicende italiane, alla rottura tra Stalin e Tito; si vedano le sue riflessioni sulla politica staliniana nei Balcani e sui condizionamenti che essa inevitabilmente ebbe sulla penisola. Io credo che presto questo riconoscimento gli giungerà anche da tanti studiosi ideologicamente orientati in un senso differente dal suo, le cui elaborazioni hanno tratto un indiscutibile giovamento dall’esigenza di rispondere alle tesi e alle analisi di Victor.
Questa sua capacità di leggere la storia del secolo scorso con la testa tutta proiettata nel secolo nuovo è una delle ragioni di ispirazione di fondo della rivista Ventunesimo secolo, che nove anni fa fondammo insieme e che da allora riunisce i giovani storici cresciuti alla Luiss.
Nell’Ottantanove Victor non si illuse nemmeno per un attimo che la storia fosse finita. Conscio di quali stravolgimenti avesse determinato l’esperimento di ingegneria sociale più importante mai concepito nella storia dell’umanità, sapeva che il “residuo” di quella stagione avrebbe resistito a lungo. Il suo realismo nel giudicare i fatti e gli uomini della Russia nasceva da questa consapevolezza: ci sarebbero volute delle generazioni per voltare definitivamente pagina.
Ma sapeva anche che non per questo si poteva fare a meno di proiettarsi verso le inedite fratture proposte dal nuovo secolo. Sin dai primi anni Duemila egli ci ha offerto un ripensamento delle categorie di nazione e di nazionalità, chiarendone gli ingredienti in gran parte inediti. Le sue analisi sull’immigrazione l’hanno descritta come un fenomeno epocale, da scandagliare mettendo da parte giudizi e pregiudizi della lunga stagione della colonizzazione che nulla hanno a che fare con il moderno fenomeno. Così come precorrendo i tempi, prima che divenisse tema à la page, egli ci esortò ad occuparci di demografia.
Ora Victor non c’è più. Ci mancherà la sua apertura mentale, la sua critica in apparenza conclusiva ma sempre disponibile ad ammettere di essersi sbagliato. Ne sanno qualcosa tanti giovani da prima stroncati e poi, col tempo, apprezzati come validi ricercatori. Ci mancherà non trovarlo più nel bel giardino della sua casa ad Amelia e ci mancheranno le sue zuppe di funghi con la panna acida.
Ma c’è qualcosa di unico che Victor ci ha dato e che i giovani che lo hanno incontrato lungo la loro strada porteranno sempre con sé: è la curiosità, la volontà di capire oltre la convenzione, spingendo il proprio orizzonte sempre un po’ più in là. E’ la volontà ferrea di risolvere un problema ricercando la verità, senza giri di parole, senza cadere nell’intellettualismo. E’ la capacità di liberarsi dell’ideologia.
Victor sapeva che in Italia non è così facile e che i suoi lavori, così poco ideologici, così protesi verso un’idea di democrazia più comprensiva, si sarebbero inevitabilmente prestati a una lettura di parte, da entrambe le parti. Ma sapeva anche, ne abbiamo parlato tante volte, che è un rischio dal quale non ci si può sottrarre se si vuol cercare di cambiare le cose. Il tempo, che è galantuomo, forse gli darà ragione.
Victor ci mancherà anche perché nemmeno per un attimo avevamo pensato di doverne fare a meno. Ma oggi il pensiero va, almeno per un attimo, alla morte di Petrov, il personaggio del suo racconto più noto, che andò via da questa terra lievemente, senza soffrire. E che, per consolarsi, amava dire: “anche la peggior salute regge fino alla morte”. Victor è morto come Petrov ma in buona salute. Lui avrebbe voluto così. L’avrebbe considerata un’altra uscita di sicurezza. E per chi gli ha voluto bene è questa una grande consolazione.