Persona, vita ma anche cultura. Cosa serve davvero all’Italia per ripartire

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Persona, vita ma anche cultura. Cosa serve davvero all’Italia per ripartire

Persona, vita ma anche cultura. Cosa serve davvero all’Italia per ripartire

03 Ottobre 2011

In una lettera al Corriere della Sera (2 ottobre 2011) il ministro Sacconi contrappone due visioni per il superamento della crisi che travaglia i paesi industrializzati e che dichiara incompatibili: da un lato quella che pone «alla base di una rinnovata vitalità economica e sociale il consolidamento e la rigenerazione dei valori della tradizione nazionale» e quella che li ritiene «palla al piede, limite e condizionamento dell’evoluzione umana». Inutile dire che egli si richiama al primo punto di vista, che è basato sul «riconoscimento della ricchezza della persona umana», sulla «difesa della vita e della famiglia naturale», mentre nel secondo i diritti individuali sono «confusi con i desideri più estremi», «anche alla luce di una fiducia cieca nella razionalità tecnica».

Non potrei che essere d’accordo. Ma spero che, nel fare simili affermazioni, il ministro Sacconi si renda conto che esse stanno in piedi  soltanto se si accompagnano al riconoscimento del valore centrale della conoscenza e della cultura, come fonte principale della libertà dell’individuo. Tanto per dirla con Dante: «fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». È quell’ideale umanistico, quella “dignità dell’uomo” così bene descritta da Pico della Mirandola, e che è fatta appunto di due aspetti inscindibili: il riconoscimento del valore della persona umana, la difesa della vita (il mondo morale, la “virtute”), e la conoscenza come sorgente di libertà. Pare che il ministro Sacconi sia consapevole che opposta a tale visione è la “fiducia cieca nella razionalità tecnica”. Subordinare la conoscenza alla tecnica, darsi al culto di quest’ultima, senza capire che la tecnica e la tecnologia perdono senso senza la matrice conoscitiva da cui derivano, non è soltanto storicamente e concettualmente sbagliato – e potenziale fonte di sterilità per le medesime – ma è causa di quello sbandamento etico e, in definitiva, morale, da cui il ministro Sacconi prende fermamente le distanze. In una parola, la visione umanistica e personalistica che il ministro Sacconi dichiara di voler difendere non può che opporsi risolutamente a ogni forma di tecnocrazia. Altrimenti è perfettamente incoerente e non ha senso.

E, allora – tanto per buttarla giù di piatto sull’attualità – mi chiedo se il ministro Sacconi si renda conto che la gran parte delle iniziative dell’attuale governo in tema di istruzione stanno prendendo invece la direzione, dopo un iniziale periodo felice, della più totale subordinazione a una visione di tipo tecnocratico e all’idolatria cieca della razionalità tecnica.

In particolare, mi chiedo se egli sia consapevole delle implicazioni delle scelte compiute in tema di istruzione tecnico-professionale. È facile fare retorica contro l’eccessiva “scolasticità” e “nozionismo” degli istituti tecnico-professionali, è persino ovvio difendere l’importanza di un apprendistato sul campo con un rapporto sempre più stretto e diretto con il mondo della produzione. Tutto ciò è giusto e accettabile a due condizioni: che non rappresenti una mera subordinazione a esigenze di un certo mondo confindustriale cui importa ben poco dell’autentica formazione, quanto importa di fare del sistema dell’istruzione un luogo di mera formazione della forza lavoro che serva direttamente alle imprese; che non esprima una svalutazione della conoscenza scientifica, come una sorta di orpello da passatisti, da parrucconi, da “gentiliani”.

Il più grande storico della scienza del Novecento, Alexandre Koyré, sosteneva che Francesco Bacone – il campione dell’empirismo scientifico – non aveva mai capito nulla di scienza. Figuriamoci cosa avrebbe detto del prof. Bertagna, consulente del ministro Sacconi, il quale impartisce lezioncine di storia della scienza per spiegare che la scienza di Galileo non avrebbe avuto alcuna matrice teorica, ma sarebbe derivata dal rapporto con gli artigiani dell’arsenale di Venezia. Che Galileo abbia avuto un profondo rapporto con la tecnica, è una banalità, ma la grande originalità di Galileo è proprio di aver fondato questo rapporto sulla conoscenza scientifica – teorica, matematica, “matematica purissima”, come diceva – per cui, come osservava Koyré, il suo cannocchiale non è uno strumento alla maniera artigianale antica, bensì uno “strumento concettuale”. Il centro propulsivo della tecnologia è la standardizzazione delle procedure: questa è possibile soltanto sulla base di criteri scientifici a priori che superare la particolarità del prodotto artigianale.

Il professor Bertagna è un eminente pedagogista ma dovrebbe andare coi piedi di piombo in un campo che non conosce. Si potrebbe chiuderla con un “sutor ne ultra crepidam”. Il guaio è che questo “sutor” inspira un progetto che – non so se il ministro Sacconi lo sa – viene sintetizzato negli ambienti ministeriali con la formula sinistra «descolarizzare gli istituti tecnico-professionali».

Ora, una simile formula fa rabbrividire, non dico pensando alla scienza di Galileo, ma ai tempi nostri, non per caso chiamati “era della conoscenza”, in cui non v’è strumento tecnologico che non sia un conglomerato di scienza complessa. Lo strumento centrale di tutta la tecnologia contemporanea – il calcolatore – non è nato da un bricolage in qualche bottega artigianale, bensì da una teoria scientifica “pura”. Pensare che oggi qualcuno possa occuparsi di qualsiasi questione tecnologica – informatica, chimica, di fisica dei materiali, ecc. – in piena ignoranza scientifica di base e facendo apprendistato diretto, significa aprire la strada al declino tecnologico-industriale, oltre che al progredire dell’ignoranza (valga almeno il primo argomento, del secondo pare che non si interessi più quasi nessuno).

Gli istituti tecnico-professionali italiani hanno una storia gloriosa, proprio per il rapporto che hanno sempre avuto con la conoscenza scientifica. Il fatto che negli ultimi decenni si siano progressivamente degradati, per responsabilità di politiche sconsiderate, non significa che li si debba curare uccidendoli con la parola d’ordine folle della loro “descolarizzazione”. Ancora una volta è entrata in scena quell’alleanza tra burocrazie stataliste, interessi particolari ed “esperti” ansiosi di veder realizzate le loro personali teorie, che ha massacrato la scuola italiana. Gli inizi di questo governo avevano lasciato sperare in un’inversione di tendenza. Assistiamo invece a una (forse inconsapevole, ma non per questo incolpevole) deriva verso il costruttivismo e la tecnocrazia. È una deriva che rende derisori i proclami umanistici e che diffonde una delusione di cui sarebbe sorprendente stupirsi.