Petrolio, come l’altalena del prezzo sta destabilizzando i Paesi produttori

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Petrolio, come l’altalena del prezzo sta destabilizzando i Paesi produttori

29 Ottobre 2008

 

Dopo essere sceso, il petrolio rimonta ma ormai il margine di oscillazione è tra i 61 e i 63 dollari al barile, contro i 147 di appena tre mesi fa. E la riunione straordinaria dell’Opec che ha deciso di tagliare le quote produttive di un miliardo e mezzo di barili al giorno è stata del tutto ininfluente. Un po’ perché ad esempio l’Iran da una parte predica di ridurre l’estrazione ulteriormente ma dall’altra annuncia che la sua capacità crescerà entro il 2010 dai 4,35 milioni di barili al giorno attuali fino ai 5,3 milioni. Insomma: armiamoci e tagliate! Ma soprattutto c’è lo stesso presidente di turno dell’Opec, l’algerino Chakib Khelil, che continua a ripetere da mesi come un mantra: “l’Opec non è più in grado di influenzare i prezzi, sia che aumentiamo l’offerta, sia se la limitiamo”. E se lo dice lui… Come ministro dell’Energia e Miniere del suo Paese, d’altronde, ha fatto adottare al suo governo un’aspettativa ufficiale nei bilanci per il 2009 che è pari a 37 dollari al barile. Bassissima. Per fare un riscontro: Chávez dice che gli servono 90 dollari; Ahmadinejad e il governo nigeriano ne vorrebbero 80, che è pure la quota del bilancio di previsione votato dal Congresso messicano; 60 è il livello atteso nel bilancio di previsione votato dall’Assemblea Nazionale venezuelana; 45 la previsione del governo libico. Lo stesso Khelil sta pure da tempo puntando tutto sulla realizzazione nel Sahara di una rete di centrali solari, la cui energia dovrebbe essere il prossimo fulcro dell’export in Europa in un futuro neanche troppo lontano.

I 37 dollari di Khelil vanno raffrontati alle previsioni su cui vari governi avevano impostato fino a pochi mesi fa ambiziose politiche di ricerca del consenso all’interno e di espansione geopolitica all’estero. Non solo il Venezuela bolivariano e l’Iran ma anche la Nigeria avevano scommesso sui 100 dollari, il Qatar tra i 70 e i 90, l’Arabia Saudita tra i 55 e i 65, e l’Opec nel suo complesso sui 90 dollari al barile. Naturalmente, poi, ci può essere un margine di maggiore o minore prudenza politica anche rispetto alle previsioni. Louis Capital Market ha ad esempio calcolato che Chávez ha speso e sparso in tale misura che il Venezuela sarebbe entrato comunque in crisi anche sotto i 120 dollari al barile, e il Fondo Monetario Internazionale ha a sua volta stimato in 110 la quota a cui la politica di Ahmedinejad avrebbe bisogno di alimentarsi. Comunque l’Iran potrebbe entrare in crisi tra quota 100 (previsione di Merril Lynch e Louis Capital Market) e quota 75 (previsione del Fondo Monetario Internazionale). Mentre la Russia di Putin e Medvedev entrerebbe in crisi a quota 70.

Altri Paesi hanno invece fatto come le operose formiche e il biblico Giuseppe, mettendo da parte gli utili delle vacche grasse per i tempi di vacche magre: anche se il dollaro debole ha poi costretto loro ad inventarsi i Fondi Sovrani per evitare pericolosi deprezzamenti, e la crisi dei subprime ha poi defalcato pure gli asset dei Fondi. Con tutto ciò, secondo Merril Lynch il Qatar entrerebbe in crisi a quota 55 e l’Arabia Saudita tra i 40 e i 30, mentre di 40 secondo il Fondo Monetario Internazionale è la soglia di crisi per l’Azerbaigian. Ciò non impedisce a qualche Paese di tirare avanti come se la crisi non fosse: il Turkmenistan, in particolare, ha deciso di dotarsi di un proprio Fondo Sovrano proprio ora. Ma è evidente che la scelta di continuare i programmi impostati al tempo dei rialzi è soprattutto dei Paesi consumatori, un cui interesse strategico è comunque quello di evitare scivoloni futuri accentuando la diversificazione. Tra gli 80 e i 60 dollari è la quota in cui escono dal mercato sia i giacimenti di petrolio sabbioso dell’Alberta canadese e della Faja del Orinico venezuelana; sia i giacimenti artici dell’Alaska; sia i giacimenti off-shore del Mare di Barents russo e dell’Australia Nord-Orientale. E tra i 70 e 40 dollari va fuori mercato anche il bioetanolo dell’asse Bush-Lula. Ma è stato invece appena annunciato che tra cinque anni il bioetanolo comincerà a essere impiegato pure per gli aerei di linea, e continua ad andare pure avanti col vento in poppa il programma del governo brasiliano per l’installazione delle 63 piattaforme necessarie a sfruttare gli immensi giacimenti off-shore appena scoperti nell’Atlantico del Sud a 3000 metri di profondità. La crisi del credito comincia però a rendere proprio le piattaforme sempre più difficilmente reperibili, e da ultimo si comincia infine a dire che forse quel progetto dovrà essere un po’ ridimensionato.

Gli ordini di almeno 20 delle 100 piattaforme petrolifere che in questo momento erano state richieste a livello mondiale potrebbero essere cancellati. La norvegese Sevan Marine ha perso il 70% del valore questo mese in seguito ai crescenti dubbi sulla sua capacità di finanziare due nuove piattaforme. La Texana Atwood Oceanics Inc. ha rinunciato a un’opzione su una piattaforma a Singapore. Adesso c’è una diffusa aspettativa che Petrobras stessa avrà problemi, per lo sviluppo dei nuovi immensi giacimenti scoperti al largo della costa brasiliana per i quali gli servirebbero almeno 63 piattaforme.