Piaccia o no, il processo ai dittatori non lo faranno i magistrati ma le armi
12 Settembre 2011
Come s’è detto altre volte, il modo più efficace per definire la “mens totalitaria” è il riduzionismo ovvero l’assunzione di un valore—si tratti dell’appartenenza etnica, della giustizia sociale, del credo religioso etc.—a fondamento di tutti gli altri. Quando questo accade il richiamo al pluralismo e all’etica liberale è pura retorica. Se, ad es., il ‘bene pubblico’ o ‘l’interesse collettivo’ diventa il principio supremo della ‘legittimità politica’ non solo i diritti individuali del vecchio liberalismo ma altresì le altre dimensioni esistenziali—come l’arte, la scienza, la religione, l’economia—retrocedono a strumenti. Si può tollerare un film di Luis Bunuel in cui i poveri, descritti come brutti, sporchi e cattivi, potrebbero fornire l’alibi a quanti si oppongono alle ‘politiche sociali’?
Oggi la mentalità totalitaria, paradossalmente, si presenta come paladina del diritto e affossatrice della ‘politica’. Quando è in gioco la vita degli individui e dei popoli, tutto deve venire sottoposto a un tribunale: le guerre tra Stati come le guerre civili, le repressioni cruente della protesta sociale, come la soppressione dei tiranni. Quanto rimaneva della saggezza classica e della sua consapevolezza dell’irrimediabile complessità del mondo viene azzerato nelle aule di giustizia. In tal modo, però, il “potere”, nell’accezione forte del termine, cambia soltanto titolare: non più la divisa militare o l’impeccabile abito borghese del premier democratico ne sono il simbolo ma la toga del magistrato.
E’ quanto auspica, in sostanza,Vladimiro Zagrebelsky nell’articolo Il processo che va fatto a Gheddafi pubblicato qualche settimana fa su ‘La Stampa’. "E’ stata superata – scrive – l’idea che l’intervento giudiziario impedisce soluzioni politiche concordate, che mettono fine a drammatici conflitti interni consentendo ad esempio a governanti criminali di abbandonare il paese con un salvacondotto e trovare rifugio altrove: che la politica, piuttosto che la giustizia, sia adatta a gestire simili emergenze. E’ invece prevalsa una posizione di principio, che esclude l’impunità per i più grandi crimini contro l’umanità e rifiuta di considerarli un affare interno (gestito dai vincitori)”.
Insomma la ‘politica’ deve raggiungere i disoccupati della storia e lasciar fare al ‘diritto’. Al fondo di questa ‘candida’ visione c’è l’idea che i fatti umani possano disporsi agevolmente sulla lavagna dei ‘buoni’ e dei ‘cattivi’ e che sia facile individuare gli uni e gli altri. Sennonché anche le peggiori dittature non dividono gli uomini in reprobi e giusti: le complicità sono spesso intricate e intrecciate e a ficcarci dentro lo sguardo vien fuori un “maremagnum tutto pien d’imbroji”. E’ proprio questo che rende indispensabile la decisione politica: ci sono situazioni in cui il nodo gordiano degli intricati fili che legano il bene e il male, sotto ogni regime, va tagliato con la spada ché, a sottoporlo al magistrato, ammessa e non concessa la sua competenza, si rischia di rimestare nel fango, di intorbidare le acque del conflitto politico, di ritardare la nascita di un nuovo ordine politico.
Dimenticando i loro frequenti richiami retorici allo spirito della ‘resistenza’ e dell’antifascismo, gli intellettuali neo-azionisti alla Zagrebelsky, per coerenza, dovrebbero contestare la decisione del CLN di fucilare Mussolini. Il dittatore avrebbe dovuto essere consegnato a un tribunale internazionale o comunque si sarebbe dovuto imporre a una corte italiana un ‘equo processo’. Bene, ma quanto sarebbe dovuto durare questo processo, una volta riconosciuto all’ex duce il diritto di difendersi adducendo documenti, testimonianze, benemerenze (vere o fasulle) acquisite, adesioni di massa alla sua politica (anche da parte dei magistrati disposti a giudicarlo)? E se, com’è probabile, si fosse difeso dicendo che in Italia c’era un pericolo bolscevico e che, grazie a lui, venne dissolto, sia pure con la violenza, il PM lo avrebbe contestato, trasformandosi da giudice in storico e dimostrando che quel pericolo non c’era, che erano i padroni a suscitarne il fantasma, che la marcia su Roma venne orchestrata dalla borghesia reazionaria?
Suvvia, siamo seri, l’eliminazione fisica del duce tolse di mezzo non pochi motivi di ‘imbarazzo’ e fu un bene che le cose andassero così, giacché il processo a Mussolini si sarebbe trasformato nel processo anche ai milioni di italiani che per ragioni varie, dall’opportunismo alla cieca fede nel fascismo, lo avevano seguito e applaudito. Il “processo alla città” è doveroso quando si tratta della Napoli camorristica ma quando si ha a che fare con spietati regimi dittatoriali la parola non va al PM ma alle armi. Che comunque non faranno mai ‘piena giustizia’ giacché tra i ‘vinti’ potrebbero trovarsi anche persone perbene e in buona fede, alle quali renderanno giustizia gli storici ‘revisionisti’ del futuro. Nel momento della finale resa dei conti, però, quelle persone servirebbero solo a confondere le idee e a mettere in dubbio la legittimità di uno scontro mortale che ha bisogno di terra bruciata per far nascere una diversa e più avanzata convivenza civile. Anche Machiavelli – e chi l’avrebbe detto? – fa parte della storia del liberalismo.