Piccole storie del grande Terrore staliniano

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Piccole storie del grande Terrore staliniano

02 Dicembre 2007

Suscita sempre sgomento ripercorrere la storia del Grande Terrore staliniano: quella sequela di arresti, delazioni e condanne che ebbe luogo dal 1934 fino alla morte di Stalin in Unione Sovietica. Quando Hannah Arendt, nel terzo volume de Le origini del totalitarismo, aveva cercato l’essenza del totalitarismo, era stato proprio nel regime di terrore vigente in quel periodo e nelle sue caratteristiche – la delazione, la persecuzione di un nemico eterno e creato ad hoc, la devastazione della vita privata dei sospettati, degli arrestati e in definitiva di tutta la popolazione – che l’aveva trovata, e l’effetto che le sue descrizioni avevano avuto sui lettori era stato molto forte. Ma ancora diverso, e assai più coinvolgente, è entrare nel meccanismo infernale attraverso la vicenda toccata a una persona in carne e ossa: il signor Izrail’ Savel’ Vizel’skij, ingegnere chimico, ebreo, uomo professionalmente ferrato e dal carattere indipendente. Lo fa Pavel Chinsky in La fabbrica della colpa. Microstoria del terrore staliniano (Bruno Mondadori, Milano 2006).

Si tratta in effetti di una microstoria (termine annebbiato da noi dopo il successo e la moda degli anni scorsi), ovvero della storia di un uomo normale: ripercorre quei mesi, quei due anni che passano fra l’arresto del signor Vizel’skij e la sua morte nel Gulag. Lo fa proprio al modo delle microstorie: mettendo insieme i fatti (si direbbe le prove) attraverso una lunga lettera che il prigioniero scrisse a Berija quando questi divenne commissario del popolo agli Interni, e attraverso le lettere della moglie disperata ad autorità e parenti: in quelle lettere sono riportati alla lettera lunghi brani delle missive (perdute) inviatele dal marito. Questi documenti sono messi a confronto con le carte ufficiali di “istruzione” del processo al signor Izrail: verbali degli interrogatori, tutte le testimonianze che potevano avere attinenza con il caso, rapporti e missive. I  fogli erano contenuti in una cartella (con uno scomparto cucito a mano nel quale si trovavano testi destinati a restare segreti più degli altri): la cartella è stata ora ritrovata negli archivi dell’ex KGB, finalmente aperti e consultabili – anche se con non poche difficoltà.

Il libro ha l’andamento di un giallo, dal momento che, proprio come accade nei racconti gialli, la sua prima preoccupazione è scoprire la verità; e la verità emerge proprio dalla comparazione sistematica fra le opere storiche scritte sull’argomento (da Conquest e Ulam in poi), le carte private, e i verbali ora disponibili. Ed è appropriato che il testo abbia l’aria del giallo, perché ciò che si propone è esattamente indagare il dispositivo del terrore dal suo interno: il modo brutale in cui avveniva l’arresto, l’ignoranza in cui l’arrestato veniva lasciato sulla accusa che gli era rivolta, lo stato di detenzione a volte breve ma a volte anche molto lungo che serviva a interrogarlo, e poi la dinamica degli interrogatori, quella serie di episodi e comportamenti che ci hanno fatto sempre pensare che l’essere umano può diventare, in condizioni opportune, un mostro.

Gli interrogatori infatti utilizzavano metodi leciti e illeciti: le domande insistenti che si ripetevano uguali per ore, le percosse unite alla mancanza di sonno che fanno finire in infermeria, l’utilizzazione di altri interrogatori condotti con gli stessi metodi, e volevano giungere a una ammissione di colpa, a una confessione, all’indicazioni di altri colpevoli. Il paradosso è che in un procedimento nel quale non era presente la minima salvaguardia per il presunto colpevole (e neppure il rispetto del Codice di procedura penale sovietico che era allora in vigore), si avesse la pretesa di ottenere una ammissione di colpevolezza “seppure legggera” firmata di pugno dal condannato: da qualcuno, cioè, che era già stato condannato prima degli interrogatori e del processo. A questa tappa seguiva il campo di lavoro: il nostro condannato, il signor Vizel’skij, morirà alla tristemente celebre Kolyma a causa della tubercolosi, di cui soffriva, che era stata aggravata dalle condizioni della prigionia. Il signor Vizel’skij rappresenta quella esigua minoranza (l’uno per cento) che non cede al barbaro procedimento inquisitorio: non confessa mai alcuna colpevolezza, e subito dopo il XX Congresso sarà riabilitato.

Il culmine della barbarie nei processi politici si raggiunge nella prima metà del 1938, e coincide con la guida di Ezov; la situazione migliora quando il suo posto viene preso da Berja, e questo non tanto per i suoi scrupoli garantisti quanto per rispondere alle richieste che provenivano da alcuni membri del partito. Stalin tenne in tutta la vicenda il suo solito atteggiamento duplice: si preoccupò di salvare la faccia inviando telegrammi che invitano al rispetto delle norme giuridiche mentre nel frattempo appoggiava e incitava il terrore.

 Quello che alla fine colpisce di più in questo libro è forse il predominio del caso  (oltre alla cattiveria e a una buona dose di disordine) nelle vicende umane. Infatti, così come è difficile assegnare un disegno lucido al Grande Terrore, ed è più opportuno per darsi una spiegazione pensare al caos che regnava nel paese, alla tensione che suscitava il timore di un attentato a Stalin, allo stesso modo la cartella con i documenti relativi al nostro signor Vizel’skij non avrebbe mai dovuto uscire dal Gulag in cui egli si trovava, ed è solo per confusione amministrativa che ciò è avvenuto. A che cosa altro se non alla follia e alla estrema adattabilità dell’essere umano può far pensare invece la corsa alle false confessioni, alle delazioni, ai complotti controrivoluzionari inventati di sana pianta, che si ebbe in quegli anni?

Una microstoria – quella scritta da Pavel Chinsky – composta di piccoli fatti senza logica e senza importanza, che contribuisce tuttavia alla ricostruzione della grande storia.