Pio La Torre, siciliano, che osò sfidare Cosa Nostra

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Pio La Torre, siciliano, che osò sfidare Cosa Nostra

06 Aprile 2008

La storia di Pio La Torre è, in tutto e per tutto, quella tipica di un giovane uomo del profondo Sud che si fa largo contando esclusivamente sulle proprie energie. Nel 1927 parte sfavoritissimo da una borgata fra le più misere del capoluogo siciliano e, grazie a una formidabile tenacia, studia e sale ai piani alti del piccì. A più riprese ai vertici provinciali e regionali, infine a Montecitorio e alla segreteria di Botteghe Oscure, per poi ritornare a Palermo dove è ammazzato in una livida primavera del 1982.

Nel frattempo, La Torre si era sposato, laureato, aveva guidato le lotte per l’occupazione della terra, era finito all’Ucciardone, aveva contrastato, dai banchi del consiglio comunale, la diccì durante il sacco urbanistico della sua città. Ma soprattutto aveva sempre fatto politica e, dentro la cosa rossa, aveva avuto le sue belle gatte da pelare. Così, represso il movimento bracciantile, finito dietro le sbarre, si era visto mollato dal partito. A Girolamo Li Causi, leader indiscusso dei comunisti locali, non era piaciuto punto il dinamismo impresso al partito della giovane guardia togliattiana. Subita a denti stretti la prima ed esplosiva fase del lotte per la terra, all’arrivo dell’inevitabile riflusso, il vecchio capo aveva messo in atto le ritorsioni del caso. Processato e allontanato, con la canonica accusa di frazionismo, dalla segreteria provinciale l’emergente e pimpante Pancrazio De Pasquale, dimenticato al suo gramo destino il sodale e carcerato La Torre. Un isolamento pieno e che dura mesi. Tanto che alla giovane moglie viene suggerito di invitare il detenuto a pensare agli studi, perché “nel partito con c’è più spazio”. Solo l’arrivo a Palermo di Paolo Bufalini consente di ricucire lo strappo. Formalmente vice di Li Causi, in realtà delegato dal centro con ampia autonomia, il cosiddetto (per via dei suoi buoni uffici oltre Tevere) “Cardinale rosso” riesce a salvare capra e cavoli, ovvero insieme disciplina di partito e una moderata apertura al nuovo. Così per la nouvelle vague comunista panormita non è rotta completa, anzi graduale rientro nei ranghi. E La Torre, una volta fuori dal carcere, è riammesso nei ranghi.

Al Comune ben presto si guadagna, come raccontano gli autori Giuseppe Boschetto e Claudio Camarca di una recente e un po’ romanzata biografia del politico piccì ammazzato dalla mafia (Pio La Torre. Una storia italiana, Aliberti editore) la nomea dello “scassaminchia”. “Per Pio”, si legge nel libro,  “l’impegno al Consiglio Comunale è fondamentale. In gioco ci sono l’espansione della città e la costruzione del piano regolatore… Spulcia documenti, studia, si legge i bilanci delle aziende. Cerca di capire come si stia muovendo la mafia”. E’ un autentico ossesso della legalità. Convinto che la Sicilia se vuole “liberarsi del giogo della tirannia criminale” deve “camminare su quei binari”. Il resto della sua tormentata carriera è abbastanza noto, deputato all’Ars, gli alti e bassi della sua gestione del partito siciliano, l’impegno alla commissione Antimafia. Al dunque, il rientro nell’isola, di nuovo alla testa del piccì locale. L’impegno per una legge (ovvero la 416 bis) che metta davvero con le spalle al muro le cosche che, nel frattempo, hanno dato il via a un’autentica mattanza.

La Torre è però nel mirino, per Totò Riina “un morto che cammina”. Si tratta semplicemente di trovare l’occasione. L’esecuzione arriva puntuale il trenta aprile del 1982. Ben congegnata, non lascia scampo.

Giuseppe Baschetto-Claudio Camarca, Pio La Torre. Una storia italiana, Aliberti editore, pagine 302, euro 16,50.