Pio XII, il nazismo e quei rapporti dimenticati con la resistenza tedesca
18 Gennaio 2009
Il quotidiano «Avvenire» del 6 gennaio ha pubblicato un’interessante anticipazione di un libro (in uscita per le Edizioni Paoline), contenente i carteggi dell’ebreo francese André Chouraqui con alcuni amici, tra i quali Jacques Maritain. In una lettera del 1969 (Tolosa, 17 gennaio), parlando dell’atteggiamento di papa Pacelli di fronte all’Olocausto, Maritain scrive a Chouraqui: «Quanto a Pio XII, sarebbe gravemente ingiusto attribuire a indifferenza il suo silenzio nell’ora della persecuzione hitleriana: a Roma mi sono informato in alto loco sulle ragioni di questo silenzio, e so che è stato dovuto solo alla paura di aumentare gravemente la persecuzione, se avesse alzato la voce. Il Papa aveva consultato alcune comunità ebraiche tedesche, ed è proprio questo che esse avevano risposto. Se abbia avuto torto o ragione a seguire questo parere e ad astenersi da una grande testimonianza che avrebbe auspicato rendere e che sarebbe stata a sua gloria, ma che sarebbe costata migliaia di vite umane sacrificate in sovrappiù, chi di noi può giudicarlo? Il suo motivo è stato quello che ha ritenuto un obbligo di coscienza, ed era un motivo profondamente umano».
E’ noto il profondo coinvolgimento di Maritain nel problema ebraico, fin da giovane, quando conobbe e sposò Raissa, una giovane ebrea russa trapiantata in Francia per sfuggire ai pogrom zaristi, e come il mistero d’Israele abbia costituito una costante della sua riflessione. Ecco perché poteva scrivere, nella stessa lettera, all’amico Chouraqui: «voi sapete che amo con tutto il cuore il popolo d’Israele e che lo Stato d’Israele mi è allo stesso modo profondamente caro. E’ l’unica nazione verso cui ci si possa volgere, nel triste mondo attuale, con uno slancio di ardente ammirazione». Non è ben chiaro, almeno dall’anticipazione dell’«Avvenire», se Maritain abbia fatto l’inchiesta in alto loco, di cui scrive, negli anni Sessanta, quando Il Vicario di Rolf Hochhuth fece deflagrare a livello internazionale il problema dei «silenzi» di Pio XII o nell’immediato dopoguerra, quando era stato ambasciatore francese presso la Santa Sede. Nel primo caso (ma anche nel secondo), l’autore delle confidenze potrebbe essere stato lo stesso Paolo VI, che – come Sostituto della segreteria di Stato – era stato uno dei più diretti collaboratori di papa Pacelli negli anni della seconda guerra mondiale e che – com’è noto – fu sempre in rapporti d’amicizia col filosofo francese.
Secondo le notizie riportate da Maritain, dunque, l’atteggiamento di Pio XII sarebbe stato condizionato anche da espliciti pareri di alcune comunità ebree tedesche: si tratta – lo ripeto – di una testimonianza interessante (ovviamente da vagliare), che può servire ad arricchire un quadro, di per sé già enormemente complesso e, al tempo stesso, sfuggente. Vorrei qui aggiungerne un’altra, riguardante più in generale la politica vaticana verso Hitler e i suoi rapporti con l’opposizione anti-nazista in Germania. Mi pare una testimonianza non trascurabile, sia per l’autore, sia per la precocità (è – come vedremo subito – del giugno 1945, a ridosso quindi della fine della guerra). E’ compresa in un documento (n. 242) pubblicato nella straordinaria raccolta curata da Ennio Di Nolfo nel 1978 e dedicata a Vaticano e Stati Uniti 1939-1952 (pp. 455-456): non è ignota (fra gli altri ne fece cenno, qualche anno fa, Piero Melograni), ma non mi è sembrata sempre presente a quanti in questi ultimi tempi hanno ripercorso queste complesse vicende.
L’autore della testimonianza: si tratta dell’avvocato bavarese Josef Müller (1898-1979), esponente del cattolicesimo politico tedesco durante la repubblica di Weimar e dopo la seconda guerra mondiale tra i fondatori della CSU. Durante il regime nazista, fu tra gli esponenti più attivi dell’opposizione ed è noto soprattutto per i contatti assidui che ebbe col Vaticano tra il 1939 e il 1940. Müller faceva parte dei servizi segreti tedeschi (Abwehr) dell’ammiraglio Canaris, uno dei centri occulti dell’opposizione anti-hitleriana. Fu inviato a Roma con una scusa, in realtà per prendere contatto con l’entourage del Pontefice (in cui erano presenti molti prelati tedeschi) e mettere a conoscenza lo stesso Pio XII dei progetti dell’opposizione tedesca e dei suoi piani per rovesciare Hitler e costruire una Germania democratica. Soprattutto chiese che il Papa se ne facesse tramite e garante con il governo inglese, ruolo che Pio XII, con notevolissimi rischi, accettò di svolgere per mezzo dell’ambasciatore inglese presso la Santa Sede, Osborne. Si trattò – come lo ha definito Renato Moro – di un «fatto assolutamente sbalorditivo nella storia del papato», ma le vittorie di Hitler in Norvegia e poi in Francia fecero abortire l’operazione. Müller venne arrestato nel 1943 e tradotto nel campo di concentramento di Flossenbürg, ma – a differenza di altri detenuti illustri di quel campo (e suoi compagni di cospirazione) come Canaris e il pastore Dietrich Bonhoeffer, che furono uccisi nell’aprile del 1945 – egli fu trasferito in Alto Adige, nel paese di Niederdorf (Villabassa) con altri 138 prigionieri “speciali” (fra cui Léon Blum e la moglie), per essere usati dalle SS come eventuali pedine di scambio.
I prigionieri furono liberati il 5 maggio 1945 dalla V Armata americana e, neanche un mese dopo, ritroviamo Müller in Vaticano. Il 2 giugno, nel tradizionale incontro col Sacro Collegio che gli faceva gli auguri per la ricorrenza onomastica di S. Eugenio, Pio XII affrontò per la prima volta in pubblico il problema dei rapporti fra la Chiesa e il nazismo: «Voi vedete – affermò tra l’altro – ciò che lascia dietro di sé una concezione e un’attività dello Stato, che non tiene in nessun conto i sentimenti più sacri dell’umanità, che calpesta gli inviolabili principi della fede cristiana. Il mondo intero, stupito, contempla oggi la rovina che ne è derivata».
«Questa rovina, – aggiungeva – Noi l’avevamo veduta venir di lontano, e ben pochi, crediamo, hanno seguito con maggior tensione dell’animo l’evolversi e il precipitarsi della inevitabile caduta». Pio XII ricordava gli anni della sua nunziatura in Germania, il sorgere del nazismo, le vicende che avevano condotto al Concordato del 1933, la condanna di Pio XI nel 1937 con l’enciclica Mit brennender Sorge, che «svelò agli sguardi del mondo quel che il nazionalsocialismo era in realtà: l’apostasia orgogliosa da Gesù Cristo, la negazione della sua dottrina e della sua opera redentrice, il culto della forza, l’idolatria della razza e del sangue, l’oppressione della libertà e della dignità umana». Poi ricordava i suoi messaggi durante la guerra (specialmente il radiomessaggio del Natale 1942) e le persecuzioni che preti e laici avevano subite in quegli anni terribili: «Con una insistenza sempre crescente il nazionalsocialismo ha voluto denunziare la Chiesa come nemica del popolo germanico. L’ingiustizia manifesta dell’accusa avrebbe ferito nel più vivo i sentimenti dei cattolici tedeschi e i Nostri propri, se fosse uscita da altre labbra; ma su quelle di tali accusatori, lungi dall’essere un aggravio, è la testimonianza più fulgida e più onorevole dell’opposizione ferma, costante sostenuta dalla Chiesa contro dottrine e metodi così deleteri, per il bene della vera civiltà e dello stesso popolo tedesco, cui auguriamo che, liberato dall’errore che l’ha precipitato nell’abisso, possa ritrovare la sua salvezza alle pure sorgenti della vera pace e della vera felicità, alle sorgenti della verità, della umiltà, della carità, sgorgate con la Chiesa dal Cuore di Cristo».
Ad alcuni questo discorso dispiacque: si rilevò che una così schietta franchezza si udiva solo allora, quando il nazismo era ormai stato vinto, ma che negli anni precedenti il parlare del Pontefice era risultato spesso meno diretto e più diplomatico. Molti poi lo collegarono alla presenza in Vaticano proprio di Müller, che – si diceva – avrebbe avuto un ruolo nella sua stesura. Di tutto questo l’avvocato bavarese parlò, la sera del 3 giugno, con Harold H. Tittmann, il giovane incaricato d’affari statunitense presso la Santa Sede, che dal 1940 viveva a Roma e, dopo Pearl Harbor, in Vaticano. Del colloquio Tittmann inviò, il giorno dopo, un preciso resoconto al suo superiore Myron Taylor, il rappresentante personale del presidente degli Stati Uniti presso il Pontefice.
Müller innanzitutto smentiva di avere avuto parte «nella preparazione di alcun passaggio del discorso del Papa», ma ammetteva di avergli fornito «le informazioni sulle quali alcuni passaggi erano basati». Al diplomatico americano che gli riferiva di «aver udito critiche piuttosto diffuse verso il Papa […], poiché egli aveva aspettato finché la Germania era stata sconfitta prima di attaccare i nazisti in pubblico», Müller rispose a lungo, rievocando le precise richieste che proprio la resistenza tedesca di orientamento aristocratico-militare (che fu poi quella che avrebbe organizzato l’attentato del 20 luglio 1944) aveva fatte ripetutamente al Pontefice:
«Il dottor Müller – scriveva Tittmann – ha detto che durante la guerra la sua organizzazione anti nazista in Germania aveva sempre molto insistito che il Papa si trattenesse dal fare qualsiasi dichiarazione pubblica specificamente diretta come condanna contro i nazisti, e aveva raccomandato che le osservazioni del Papa si mantenessero entro i limiti delle sole considerazioni generali. Il dottor Müller ha detto di essere stato obbligato a dare questo consiglio, poiché se il Papa fosse stato specifico, i tedeschi lo avrebbero accusato di cedere alle pressioni di potenze straniere e ciò avrebbe reso ancor più sospetti di quanto non fossero i cattolici tedeschi e avrebbe grandemente ristretto la loro libertà d’azione nella loro opera di resistenza al nazismo. Il dottor Müller ha detto che la politica della resistenza cattolica in Germania era che il Papa dovesse tenersi in disparte, mentre la gerarchia tedesca portava avanti la lotta contro il nazismo all’interno della Germania, senza che influenze esterne si manifestassero. Il dottor Müller ha detto che il Papa ha seguito questo consiglio per tutta la durata della guerra. […] Egli immagina che il Papa abbia deciso di scendere ora in campo aperto contro i nazisti poiché le implicazioni delle sue denunce sono attualmente assai importanti e sembrano al Papa soverchiare altre considerazioni».
Anche la testimonianza di Müller conferma, dunque, che sarebbero state una serie di specifiche richieste provenienti dalla Germania ad avere svolto un ruolo non secondario nel più generale atteggiamento di Pio XII di quei tragici anni. Si potrà discutere – come scriveva nel 1969 Maritain – se abbia avuto torto o ragione a seguire questi pareri ed eventualmente allargare il discorso anche ai limiti politico-culturali che segnarono l’opposizione aristocratico-militare (che tuttavia pagò spesso con una morte eroica la sua scelta anti-nazista), ma nel quadro complesso di cui prima si ragionava, bisogna far posto anche a quei suggerimenti. Di particolare rilievo mi pare – lo ripeto – la precocità della testimonianza, proprio a ridosso dei fatti, quando le critiche a Pio XII non andavano oltre qualche mormorio diplomatico e, invece, era generalmente riconosciuto e lodato il ruolo umanitario svolto dal Vaticano durante la guerra. Lo storico ipercritico potrebbe liquidare tutto, sostenendo che il cattolico Müller altro non voleva che “coprire” il Papa di fronte a quelle prime riserve. Ma l’ipercritica rischia troppo spesso di fare piazza pulita di ogni testimonianza, se non di quelle che le convengono.