Più che alla primavera ’89 le rivolte arabe assomigliano al khomeinismo

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Più che alla primavera ’89 le rivolte arabe assomigliano al khomeinismo

28 Gennaio 2012

A un anno esatto dalle rivolte che hanno attraversato il mondo arabo musulmano nell’altra sponda del Mediterraneo, è possibile trarre un primo bilancio, o per lo meno riportare le diverse interpretazioni, di quello che sta avvenendo. Il fatto più eclatante è che ci dobbiamo muovere tra diverse narrazioni a seconda delle percezioni dei vari attori e spettatori interessati, letture che distano chilometri di distanza l’una dall’altra, fatto che rende difficile proporre con relativa sicurezza un’analisi che risulti vicina alla realtà. Quindi cominciamo dai fatti.

La prima notizia viene da Asia Times – ripresa anche dal Foglio -, dal sempre informato, ragionante e acuto Spengler. L’Egitto è sull’orlo della bancarotta e della fame, quella vera; gli investitori, all’ultima asta dei titoli del tesoro il 22 gennaio, hanno comprato meno di un terzo dei 3,5 miliardi di sterline egiziane pari a 580 milioni di dollari. In nove mesi i titoli sono saltati ad un rendimento del 16%, ciononostante, gli investitori non danno nessuna fiducia né al governo né alla società egiziana. Il fatto è che dopo la vittoria alle recenti elezioni del braccio secolare dei Fratelli Mussulami e dei salafiti del al-Nour Party che hanno ottenuto rispettivamente il 47% e il 25% dei voti, l’elite degli affari che aveva prosperato sotto il regime di Nasser e Mubarak si sta preparando all’esilio mentre l’industria del turismo, che rappresenta quasi un terzo dell’intera economia, è in crollo verticale. Ad aggravare la situazione, vi è la realtà della situazione egiziana; l’Egitto è infatti un importatore di cibo che negli ultimi anni a causa della crisi hanno subito un aumento pazzesco. In un paese dove metà della popolazione vive con due dollari al giorno, di cui uno speso in alimenti, la drammaticità della situazione è evidente, anche considerando il diverso potere d’acquisto della moneta egiziana e di funzionamento di gran parte della stessa economia. La conseguenza è che in molte città sono già avvenute delle vere e proprie rivolte per il pane, che ci riportano alla memoria i moti nostrani contro la tassa sul macinato imposta dalla Destra storica alla fine dell’800. In questa situazione di crisi non stupisce che le uniche istituzioni funzionanti siano ancora una volta quelle tradizionali rappresentate dalla moschea, dalla tribù e dal clan (quasi un terzo dei matrimoni è con cugini di secondo o terzo grado, dato indicatore di una società familistica e chiusa). Spengler conclude notando l’assenza sia dell’Europa che dell’America, impegnata in una lunga campagna elettorale, e quindi è necessario prepararsi al peggio.

Siamo perciò ben lontani dal mondo felice che vede la “primavera araba” volteggiare sull’onda dei social media, di twitter, dei blogger come ancora una vulgata semplicistica e superficiale vorrebbe, si veda ad esempio questo articolo su Open Democracy, sito su cui è possibile trovare anche opinioni di Giuliano Amato, che si intitola non a caso “Fra twitter e la strada: la Tunisia celebra la sua seconda indipendenza”. Questa non è però solo l’immagine che alcuni mass media occidentali danno, ma è anche una percezione di molti dei giovani attori principali di quegli eventi che sono stati o si sono creduti protagonisti, primi a scendere in piazza. Ma a mitigare il tono trionfalistico, vi è anche un ponderato articolo sull’influenza della situazione internazionale, su cui in seguito ritorneremo.

Al Jazeera, comunque, è salita alla ribalta mondiale con le sue trasmissioni e servizi su quei giorni, significative sono le parole del suo ex direttore Wadah Khanfar che rivendica con orgoglio il ruolo giocato dalla sua televisione nonché dai nuovi network sociali, democratici per definizione, che si sono scontrati con un potere ottuso, incapace di leggere le novità. Il vero punto di partenza della sua analisi però sta nel giudizio sui regimi arabi, eredi del nazionalismo nasseriano, giudicati corrotti, chiusi in se stessi, autoritari, alleati con ristretti gruppi di affari, tesi ad eliminare ogni forma di dissenso, fino a gettare la società civile in una sorta di muta disperazione, fino a far sperare come unica possibilità, unica via di uscita, nella venuta di “Angelo della morte”, in un nuovo Mahdi. E qui abbiamo a che fare con i sentimenti delle società arabe. Roberto Aliboni è uno dei nostri massimi esperti di Medio Oriente e descrive con attenzione quello che è avvenuto in quel mondo.

Innanzitutto, noi occidentali dobbiamo pensare che il punto di svolta degli eventi per il Medio Oriente è rappresentato dalla Rivoluzione Iraniana del 1979-80 e dalla pace tra Egitto e Israele, giudicato un vero e proprio tradimento, (Aliboni si dimentica l’altra data centrale per tutto il mondo mussulmano: la sconfitta dell’URSS in Afghanistan il 2 febbraio dell’89) e non dalla caduta del muro. Da allora è stato un risorgere di nazionalismo, ricerca della perduta identità, ripresa della religiosità e nuova fiducia nelle proprie possibilità. Se d’altronde l’alleanza degli Stati Uniti con i regimi moderati autoritari, con la prima guerra del Golfo per liberare il Kuwait, si era rafforzata, gli interventi in Iraq e Afghanistan seguiti all’11 settembre, la scusa del terrorismo da parte di quei governi per una maggiore e assurda repressione che ha calpestato ogni diritto civile, la mancata soluzione della questione israelo palestinese, non hanno fatto altro che gettare benzina sul fuoco. Adesso il nazionalismo, l’Islam e i sentimenti antioccidentali si sono fusi in qualcosa di micidiale.

Il secondo dato di fatto da considerare quando guardiamo ai cambiamenti in corso nell’altra sponda del Mediterraneo, è rappresentato dalla considerazione che le nostre percezioni si costruiscono intorno a sentimenti di preoccupazione perché comunque i regimi precedenti erano amici dell’Occidente, perché questi sommovimenti ci hanno colto alla sprovvista, e perché abbiamo il terrore che – non ultimo – al governo e nella società del vicinissimo Maghreb vadano i fondamentalisti.

E in ultimo vi è il ruolo degli attori internazionali, da quelli regionali, in primo luogo Arabia saudita, Turchia e Iran, a quelli internazionali, Stati Uniti, Europa e Russia, ma questa puntata sarà per il prossimo numero.