Più che di Futurismo i finiani soffrono di “Marinettismo”
07 Novembre 2010
di Luca Negri
Quando la scorsa estate spuntò dal caos politico in area centrodestra il raggruppamento Futuro e Libertà, i falchi antiberlusconiani gioirono, nonostante l’iniziativa finiana fosse di mera reazione al documento di sfiducia dell’Ufficio di Presidenza del Pdl, non certo una coraggiosa iniziativa di scissione autonoma. Cavalcando l’onda dell’entusiasmo, Filippo Rossi, intellettuale di punta del pensatoio culturale finiano, proclamò su Facebook: “Scriviamo il nuovo manifesto del Futurismo!”.
Da qualche anno è infatti “futuro” la parola magica finiana: Il futuro della libertà s’intitola il manifesto politico del Presidente della Camera (pubblicato da Rizzoli un anno fa e ancora presentato in giro per l’Italia dall’infaticabile autore); Fare Futuro si chiama la fondazione di Rossi, Adolfo Urso ed Alessandro Campi; Futuro e Libertà è appunto il nome del partito personale (grazie ad uno sforzo di immaginazione dell’onorevole Luca Barbareschi). A questo punto è ovvio che nel gergo politico-giornalistico gli arruolati nelle truppe parlamentari ed editoriali finiane siano stati chiamati “futuristi”. Come gli scrittori, pittori e musicisti compagni di strada e seguaci di Filippo Tommaso Marinetti, colui che fondò il Futurismo nel 1909.
Ma cosa c’entrano i futuristi storici con i finiani? Subito salta all’occhio una differenza non di poco conto: i primi rappresentarono una vera novità nel panorama culturale italiano ed europeo di quegli anni, i secondi incarnano una situazione vecchia e vista fin troppe volte: quella di un gruppo di pressione politico-mediatico che, del tutto legittimanente, lavora al rinnovamento e al consolidamento dell’immagine di un leader politico. Il manifesto promesso da Rossi nel bel mezzo della scorsa bollente estate, lo si è intuito dai prolegomeni contenuti nel “manifesto d’Ottobre”, sarà un confuso e velleitario miscuglio di stagionate parole d’ordine di destra e sinistra del tutto funzionale alla tattica finiana.
Insomma, siamo al cospetto di futuristi solo di nome, che si richiamano al movimento di Boccioni e Carrà per solo scopo reclamistico. Scelta per nulla inattuale ed impopolare, anzi decisamente vincente.
Il Futurismo, infatti, ha vinto da tempo la sua battaglia, si è affermato nel costume nazionale ed è un sentimento tipico di una certa tarda modernità occidentale. Il sigillo della vittoria è stato imposto l’anno scorso, durante le celebrazioni per il centenario del movimento. La grande mostra di Milano fu inaugurata dal Presidente della Camera Fini e da quello della Repubblica Napolitano. Un ex fascista ed un ex comunista, ormai approdati ai più alti incarichi istituzionali, rappresentanti ufficiali della Repubblica, tributavano gli onori al Marinetti che voleva esaltare “il gesto distruttore dei libertari” e “le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni”. Niente male come paradosso, per chi proponeva la distruzione dei musei, ma a ben vedere si trattava di una presa d’atto: il Futurismo è più o meno inconsciamente penetrato nella mentalità collettiva. Quelle “parole in libertà” fanno parte della nostra quotidianità.
Ad esempio, è assai praticato il culto della gioventù perenne ed è introiettata l’equazione del nuovo e moderno con il bene assoluto. Tutti vogliono apparire meno vecchi e più prestanti, anche in politica si continua a gridare “largo ai giovani” (un rovesciamento di prospettiva rispetto alle società tradizionali, dove l’autorità era attributo degli anziani che avevano più vissuto, fatto maggiore esperienza e forse per questo erano più saggi).
Marinetti e soci usarono con genio i metodi della pubblicità e noi viviamo sotto il dominio dello spot. L’elogio futurista della velocità, del ritmo parossistico, dello sprezzo del pericolo son sottoscritti da molti giovani che spingono le loro automobili ai duecento all’ora in autostrada, abbandonano i corpi ai tribalismi sintetici del sabato sera, si lanciano con il paracadute o fanno bungie-jumpie da un cavalcavia. Per non dire degli adolescenti che scrivono, inconsapevolmente, sms con il cellulare o frasi in chat rispettando le indicazioni del Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912 (distruzione della sintassi, abolizione degli avverbi, uso di simboli matematici). Il modello futurista di città, la metropoli verticale con tanti grattacieli non è tramontato con il Novecento ma ancora ispira le cosidette archistar. La parola d’ordine anticlericale dei futuristi, lo “svaticanamento” dell’Italia è la stessa di un gruppo creato su Facebook con più di duecentomila iscritti che propone il trasferimento della sede apostolica in Groenlandia.
È inoltre noto che il Futurismo fu uno degli ingredienti principali del Fascismo (Marinetti accompagnò Mussolini da piazza San Sepolcro a Salò) e si fece banditore di colonialismo aggressivo, nazionalismo esasperato (al punto che la parola Italia doveva primeggiare sulla parola libertà) e rappresentò l’interventismo più fanatico che gettò il fragile Regno d’Italia nell’inutile strage del primo conflitto mondiale.
Aggiungeremmo le critiche di due intellettuali di destra che fiancheggiarono in gioventù il movimento ma in seguito presero nette distanze. Giovanni Papini era stato, con Ardengo Soffici e Aldo Palazzeschi, animatore della rivista “Lacerba”, voce del Futurismo toscano meno ideologico di quello milanese di Marinetti e Boccioni. Esperienza breve poiché già nel 1914 salvava del Futurismo la sola vocazione alla rottura con un passato anchilosato ed una cultura ridotta a sterile accademia. Riteneva poi doverosa una distinzione fra Futurismo genuino e “Marinettismo”; quest’ultimo era la degenerazione personalistica, fanfarona e parolaia del primo, pubblicità più che arte, tanto fumo e niente arrosto.
Ancora più dure furono le parole scritte nel 1930 dal barone Julius Evola, divulgatore della destra tradizionalista e metafisica con un passato da pittore astratto allievo di Giacomo Balla. Per lui il Futurismo era uno dei “simboli della degenerescenza moderna”, esprimeva “il movimento dello spirito che tradendo se stesso s’immedesima con la forza bruta del divenire e della materia”. Si trattava di un progressismo spinto, completamente acritico, immerso nel divenire ed ossessionato dall’istantaneità. Più che futurismo era un presentismo al quale erano precluse le vette della coscienza lucida e distaccata; un “taylorismo spirituale” che tarpava ogni aspirazione al trascendente per mezzo della “vita frenetica, meccanizzata, istantanea, reclamistica, clownesca delle metropoli”. E concludeva: “la dottrina e lo sciovinismo nei futuristi si son sempre trovati confusi nella promiscuità la più sinistra, associandosi d’altra parte al bluff all’americana, alla boutade, alla smania per il record e per la cosa originale, alla chiassata”.
Insomma, il Futurismo storico era un qualcosa di molto peggiore rispetto alla proposta del gruppo di intellettuali organici di simpatie finiane. Il Presidente della Camera ed i sodali Rossi, Urso, Campi non sono futuristi, ed è preferibile che non siano così allucinati dalle magnifiche sorti progressive della modernità, dall’”ossessione lirica della materia” e dalla “guerra sola igiene del mondo”. Aspettiamo gli sviluppi sul piano dell’elaborazione culturale, ma per ora è più che altro forte il sospetto, suggerito da Papini, che Futuro e Libertà sia più che altro un ottimo esempio di “Marinettismo”.