Più che un partito unico servirebbe un’officina (di G.Quagliariello)
06 Giugno 2021
Nell’estate del 1914 Stefan Zweig era seduto in un caffè di Baden-Baden e si godeva un’orchestrina. Ad un tratto l’orchestrina smise di suonare. E la voce di uno speaker annunciò la mobilitazione generale, preludio della Prima Guerra Mondiale. Zweig definì tutto il tempo che aveva preceduto quell’improvviso silenzio “il mondo di ieri” perché, dopo, nulla sarebbe più stato come prima.
L’orchestrina del nostro tempo ha smesso di suonare nel febbraio del 2020, quando la radio annunziò il primo morto italiano per coronavirus. Da allora è cambiato tutto: in ambito antropologico, in ambito sociale, in ambito economico. In politica, invece, qualcuno ancora si illude che ci sia solo da attendere che la nottata passi e poi nel proprio terreno di competenza tutto tornerà uguale a prima.
Non è così. A livello internazionale ci si trova a fare i conti con un nuovo bipolarismo determinato dalla posizione della Cina e dalla mutata situazione dell’America, e con un’Europa che ha cessato di essere un’ideologia ed è stata posta di fronte alla prova concreta della solidarietà. A livello interno c’è da affrontare il tema del rapporto tra vitalità e sviluppo, che richiama il bisogno di una nuova e diversa cultura di impresa, la improcrastinabile urgenza d’affrontare una crisi demografica che sembra essere un tunnel senza uscita, la considerazione del ruolo strategico delle aree più depresse e marginalizzate del Paese dalle quali soltanto può passare la ripresa. E poi, per quanto riguarda l’organizzazione dello Stato, la pandemia ha attualizzato il tema del rapporto tra centro e regioni trasformandolo in carne viva, così come ha evidenziato la necessità di attribuire un nuovo ruolo a un Parlamento apparso troppo a lungo inerme.
Chi vuol fare qualcosa di nuovo in politica deve partire da qui e dalla proposta di una classe dirigente in grado di confrontarsi con questi nodi. E deve farlo senza attendersi nulla dalla partecipazione a un esecutivo di salvezza nazionale. Mario Draghi non è né Monti né Conte. Alla fine del suo compito non scenderà in politica. Dalla sua esperienza non nasceranno né nuovi partiti né edizioni straordinarie di quelli vecchi. La sua esperienza governativa potrà essere fonte d’ispirazione ma non preludio a una nuova intrapresa partitica.
E’ questo il motivo di fondo per il quale la proposta lanciata da Matteo Salvini di una federazione dei partiti di centrodestra non può essere accolta da chi, come noi, non ha mai smesso di rimpiangere il “modello PdL” e da anni si mette in gioco per favorire processi di riaggregazione ispirati a una visione che sia idealmente maggioritaria oltreché numericamente vincente. Nuovi modelli organizzativi dovrebbero scontare la drammaticità del confronto con un mondo che è cambiato, o quantomeno partire da questa consapevolezza. Dovrebbero muovere dall’approfondimento del nuovo contesto. Dovrebbero agevolare una ibridazione effettiva tra culture politiche alla luce dei mutamenti epocali, oltreché un modulo di collaborazione operativa che in qualche modo è già avviata e certamente si può incrementare. Dovrebbero essere discussi partendo dalla ricerca di nuove identità, e dalla necessità di fare i conti con quelle precedenti, nel tempo nel quale – per tornare alla metafora di partenza – la musica è finita.
In assenza di tutto questo, la sensazione che nessuna buona volontà può cancellare è quella di trovarsi di fronte alla prospettiva di una aggregazione meccanica di pezzi del mondo di ieri, che non contempli nemmeno lo sforzo di aggiornare gli spartiti e i suonatori. Un po’ la parodia inversa del compianto PdL: se allora c’era una visione della quale la realtà non è stata all’altezza, oggi è come se di fronte a una realtà impegnativa ci si limiti a un espediente temporaneo per risolvere qualche problema contingente di questo o di quell’uomo politico del tempo di oggi o del tempo di ieri.
Se queste sono le sensazioni, è facile previsione che al netto di slanci anche positivi la proposta si arenerà. In politica la fantasia è una grande risorsa ma non deve essere sinonimo d’improvvisazione.