Più corsi di inglese negli Atenei? Sì, ma stiamo attenti a non esagerare

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Più corsi di inglese negli Atenei? Sì, ma stiamo attenti a non esagerare

11 Marzo 2012

Nuova puntata dell’interminabile dibattito sull’opportunità o meno di potenziare i corsi in inglese nei nostri Atenei. Com’è noto, infatti, il ministro Profumo continua a insistere su questo punto, affermando che la diffusione capillare degli insegnamenti in lingua inglese costituisce una condizione necessaria per internazionalizzare il sistema universitario italiano, rendendolo più “appetibile” agli studenti stranieri e togliendolo dalle posizioni di coda in cui esso è attualmente relegato nelle varie classifiche mondiali.

Mette conto notare che Profumo non dice cose nuove. In realtà l’internazionalizzazione occupa già un posto prioritario nella riforma dell’ex ministro Gelmini, ora entrata nella fase attuativa, al punto che tale riforma riconosce incentivi di un certo peso agli Atenei che promuovono l’introduzione o l’aumento dei corsi tenuti in inglese. Il merito – o il demerito, dipende dai punti di vista – di Profumo è quello di aver pubblicizzato molto tale aspetto, con interviste rilasciate ai giornali e dichiarazioni diffuse quasi quotidianamente in ambito accademico.

Tuttavia il “mal di pancia” di tanti professori cresce invece di diminuire. Lo prova un articolo del filosofo Tullio Gregory pubblicato sul Corriere della Sera del 7 febbraio e intitolato: “La retorica dell’inglese per tutti. Imporlo non ci fa più moderni, né più produttivi”. Non a caso l’attacco proviene ancora una volta dai settori umanistici, che a detta di molti saranno i più danneggiati dal nuovo corso ministeriale.

Queste, in sostanza, le tesi di Gregory. 1) La conoscenza della lingua italiana sta regredendo nelle nostre scuole, con la conseguenza che molti studenti arrivano all’Università con competenze linguistiche poverissime. Ed è vero. Ormai perfino le Facoltà di Lettere e Filosofia sono costrette a introdurre prove di accesso per verificare la capacità delle matricole di esprimersi in un italiano almeno decente. 2) L’Università viene sempre più legata al mondo dell’industria e dell’economia. Libri e articoli sono definiti “prodotti” in sede di valutazione della ricerca, valutazione intesa in termini più quantitativi che qualitativi. E anche questo è vero. Pure il sottoscritto prova fastidio nel veder definire “prodotti” i propri libri e articoli. 3) Si dimentica che la cultura “disinteressata” apre, nel tempo lungo, prospettive positive e più ampie rispetto al prodotto di pronto uso e “si afferma come essenziale motore di creatività e di crescita in ogni settore del Paese”.

Penso che Gregory abbia ragione quando sottolinea che gli studi umanistici sono sottovalutati e trascurati dai nostri attuali governanti, e torto quando afferma che tale tendenza data da decenni. In realtà per un tempo assai lungo la cultura italiana ha avuto, grazie all’influenza di Croce e Gentile, un’impronta più umanistica che scientifico-tecnologica. Proprio per questo l’Italia occupa ancora un posto di primo piano negli studi classici, filologici, storici, filosofici e artistici. Non è così nel complesso, e fatte salve le numerose eccellenze presenti, quando si passa ai settori scientifici e tecnologici.

Resta da capire perché ci sia tanta ostilità verso la proposta di ampliare anche da noi, come già avviene in molti Paesi europei, l’offerta formativa in inglese. Si tratta come tutti sanno di una lingua divenuta ormai indispensabile nella comunità scientifica (ivi inclusa quella umanistica) ed economica. Al punto che i giovani la imparano spesso per conto proprio quando la scuola non offre tale opportunità.

In secondo luogo non bisogna dimenticare che è essenziale aumentare la capacità del nostro sistema universitario di attrarre studenti provenienti da altri Paesi. Gli iscritti stranieri testimoniano in modo efficace l’eccellenza e la validità dell’offerta formativa. Se ne sono accorti perfino i francesi, così gelosi della lingua patria. Utilizzando l’agenzia nazionale CampusFrance, che promuove efficacemente all’estero la loro offerta formativa, gli Atenei francesi sono in grado di attrarre un numero di studenti stranieri assai superiore al nostro.

Ma – è bene sottolinearlo – tale promozione avviene nelle fiere internazionali distribuendo materiale informativo scritto in inglese! Perché mai una simile strategia dovrebbe essere considerata lesiva della dignità nazionale? Non occorre essere degli specialisti per sapere che in certi settori dell’ingegneria, della fisica, dell’economia le riviste di maggior prestigio accolgono soltanto contributi in inglese, e non è quindi uno scandalo se le nostre Università offrono corsi in tale lingua.

Diverso è ovviamente il discorso per gli stranieri che arrivano per studiare italiano, restauro o materie legate ai beni culturali. Ci si lamenta perché in questi settori gli studenti di altri Paesi sono pochi, senza però rammentare che ci sforziamo ben poco di promuovere all’estero lo studio dell’italiano. Al contrario di quanto fanno per esempio francesi e tedeschi per diffondere la loro lingua oltre i confini nazionali.

Penso insomma che occorra equilibrio quando si parla di un tema così importante. Da una parte vanno evitate le esagerazioni. Il senato accademico del Politecnico di Milano ha recentemente deliberato che “tutti” i corsi delle lauree magistrali debbano essere tenuti in inglese. Questo è senza dubbio eccessivo, e un mix di italiano e inglese sarebbe più opportuno. Dall’altra è necessario capire i grandi mutamenti che la globalizzazione ha comportato. Chi si pone in una posizione di rifiuto “a priori” si autocondanna all’isolamento.