Politica e magistratura: un matrimonio che non s’ha da fare
28 Dicembre 2012
La notizia della candidatura del procuratore Grasso ha ancora una volta portato al centro dell’attenzione questa abitudine, tutta italiana, di usare la magistratura come una porta girevole. Non è il caso di Piero Grasso, che a differenza di altri suoi illustri colleghi, ha chiesto il pensionamento anticipato, dimettendosi di fatto da magistrato, ma è la situazione di tantissimi altri politici che dalle procure hanno condotto, in un recente passato, indagini eclatanti proprio nel periodo immediatamente precedente alla decisione di candidarsi.
Si dirà che l’aspettativa è un diritto che i magistrati hanno al pari di qualsiasi altro lavoratore ma il discorso è assai più complesso. Fare il magistrato significa rappresentare lo Stato in consessi particolari come i processi, non come dietro uno sportello o da una scrivania di un ufficio. Un magistrato che decide di entrare in politica viene a perdere immediatamente quel particolare requisito di terzietà che è richiesto dal suo ruolo e dalla legge e bene ha fatto Grasso a specificare che non sarà possibile per lui tornare indietro e che la sua è una scelta definitiva: molti altri invece, specie nello schieramento da egli sostenuto, sono in aspettativa da molti anni, se non da decenni.
Un vulnus pericoloso per uno Stato regolato da una costituzione che, sulla divisione dei poteri e sulla loro reciproca indipendenza, ha delle norme molto severe e puntuali. Allo stato attuale è possibile che molti degli attuali parlamentari o sindaci possano tornare, anche dopo decenni, a rappresentare l’intera collettività nei procedimenti giudiziari. Manca da tempo, in verità, un intervento del legislatore che regoli più dettagliatamente questa situazione paradossale che, viceversa, richiederebbe una stringente normativa. Uno dei tanti temi, questo, assente nel dibattito.
In tempi di agende tecniche, focalizzate quasi esclusivamente su temi economici, i partiti si sono dimenticati di affrontare il più generale discorso sulla riforma della giustizia, tutt’altro che sganciato poi da discorsi economici. I ritardi, in special modo nei processi civili, paralizzano molti aspetti dell’economia legata al commercio: come esempio potremmo citare una causa sul recupero dei crediti che, reso complicatissimo dai tempi vergognosi della nostra giustizia, disincentiva quegli investimenti (specie esteri) che cerchiamo di favorire.
Eppure nei programmi dei principali schieramenti di giustizia non si parla quasi mai, dimenticando che una economia del benessere non può prescindere da un sistema giudiziario rapido, giusto ed efficace. In Italia una causa civile, seppur di modesto valore economico, può durare anche più di dieci anni. La prima udienza, in un normale processo di cognizione, può essere fissata finanche a due anni dalla citazione in giudizio. La recente riforma sul processo informatizzato, inoltre, ha inciso poco o nulla sui tempi e la situazione rimane invariata da decenni.
Il dibattito politico, quelle poche volte che si inoltra sui temi della giustizia, è deprimente: mancano proposte o si ritirano fuori vecchi ddl che sono destinati a rifinire insabbiati nelle aule parlamentari. Se con Grasso, il Pd, pone un autorevole esponente al centro dell’arena non fa però menzione, nello specifico, delle ricette che si intenderanno adottare nella prossima legislatura. Il Pdl, poi, è impantanato da anni su piccole azioni di rappresaglia o sulla proposta di divisione delle carriere che, da questo punto di vista, è l’ultimo dei problemi. Quanto al centro montiano, nulla è ancora pervenuto. Certo che se le premesse portano agli stessi risultati che in un anno abbiamo visto col pur ottimo ministro Severino, miglioramenti all’orizzonte non se ne vedranno per molto altro tempo. E il fatto che in questo Parlamento ci sia il record di magistrati e avvocati non fa ben sperare: se questi sono i tecnici della giustizia siamo davvero spacciati.