Polonia, l’orgoglio nazionale che merita di essere valutato con pazienza
23 Novembre 2017
Un intransigente no al razzismo polacco, però l’orgoglio polacco merita di essere valutato con pazienza. “Błaszczak said that people in an anti-government rally in opposition to the Independence March, which saw 60,000 people walk through the streets of Warsaw on 11 November, ‘wanted to pick a fight’. A number people held a rally, armed with anti-fascist and anti-racist banners and posters, in opposition to the Independence March, which featured allegedly racist slogans. But Poland’s government condemns racist slogans, according to the foreign ministry and the culture minister”. Radio Poland del 13 novembre descrive la manifestazione con 60.000 partecipanti per il giorno dell’indipendenza polacca, mettendo in luce sia le provocazioni contro questa manifestazione denunciate dal ministro dell’Interno Mariusz Błaszczak sia gli slogan razzisti lanciati durante la manifestazione citata, stigmatizzati dal ministro degli Esteri. Bernard Guetta, giornalista francese assai stimato esperto di politica estera, intervistato dalla Repubblica del 13 novembre dice che il partito al governo Diritto e ordine, pur rifiutando l’antisemitismo: “Fomentando il nazionalismo apre la porta a discorsi ancora più a destra”. Rick Lyman sul New York Times del 15 novembre ha ricordato che il Parlamento europeo ha iniziato ad avviare una procedura che contempla la possibilità di sterilizzare la partecipazione della Polonia alla Ue utilizzando l’articolo 7 dei trattati fondativi dell’Unione perché Varsavia ha messo “limit to judicial indipendence and threaten the rule of the law”, limiti all’indipendenza dei giudici e minaccia lo Stato di diritto.
Dopo questi avvenimenti e prese di posizione “The other day the present Warsaw government demand Berlin pay reparations for the Second world war” Varsavia ha chiesto a Berlino di pagare la riparazione dei danni che la Germania ha inflitto ai polacchi nella Seconda guerra mondiale così scrive Philip Stephens sul Financial Times del 17 novembre. “Kiev summoned the polish ambassador on saturday, escalating a dispute over exhumations being blocked of poles killed in Ukraine during the Second world war”, Kiev ha convocato l’ambasciatore polacco per l’esplodere della polemica sul fatto che sia stata bloccata l’esumazione dei polacchi uccisi in Ucraina durante la Seconda guerra mondiale, così racconta James Shotter sul Financial Times del 20 novembre. Sempre sul Financial Times del 22 novembre Neil Buckley e Michael Peel ci informano che “Ukraine is angry that friday’s summit of the so-called eastern partnership offers no pledge of Eu’s membership”: l’Ucraina è irritata perché il più recente vertice della cosiddetta alleanza dell’Est non ha previsto nessun impegno per una sua adesione all’Unione europea. E ancora “In tweet in Polish sent on Sunday, the former Polish prime minister offered a litany of charges against his political rivals in the ruling right-wing Law and Justice government, likening them to Vladimir Putin’s Russia”. Marion Solletty scrive su Politico del 19 novembre che Donald Tusk oggi presidente del Consiglio europeo e già presidente del Consiglio a Varsavia, ha paragonato in un tweet il governo polacco in carica a quello di Putin. “The Polish government has accused EU Council President Donald Tusk of ‘attacking Poland’” una nota sul sito della Bbc del 20 novembre racconta come il governo di Varsavia ha accusato Tusk di aggredire la Polonia.
Non si può non ascoltare con attenzione le considerazioni di Guetta così come le preoccupazioni di Commissione e Parlamento europeo per l’indipendenza dei giudici in Polonia. Con ancora maggior considerazione vanno tenute presenti le proteste dell’ambasciata d’Israele a Varsavia contro gli slogan antisemiti gridati nella manifestazione in occasione dell’anniversario dell’indipendenza polacca. Mentre sul razzismo non si possono fare sconti a nessuno (e peraltro il governo polacco ha tenuto a far presente sia i suoi sentimenti di amicizia per Israele sia il ripudio del razzismo, pur con qualche non indifferente e dunque grave ambiguità del ministro dell’Interno), la questione dell’orgoglio nazionale e della voglia di autodeterminazione di un popolo così massacrato tra il ’40 e il ’45 e così privato della sua libertà fino alla fine degli anni ’80, dovrebbe essere trattata con una certa consapevolezza politica e storica, senza quegli scatti burocraticamente censori, senza un’annebbiante retorica, senza demagogiche lezioncine sui diritti soprattutto da parte di nazioni che hanno grandi debiti verso Varsavia, insomma senza tutte quelle cadute di stile che sempre più di frequente caratterizzano la nostra beneamata Unione. Comparare, poi, “la torsione del linguaggio politico” ai “manganelli fascisti” per spiegare i casi polacchi (e ungheresi) come fa Massimo Riva sulla Repubblica del 21 novembre, è gravemente fuorviante e porta a indirizzi politici stupidi e distruttivi. Così come le insinuazioni che vi siano “echoes of 1930s anti-Semitic propaganda” nelle prese di posizione dei governi di Varsavia e Budapest, lanciate da George Soros sul Financial Times del 21 novembre, fanno a pugni con le politiche filoisraeliane dei due governi dell’Europa orientale. Mentre le critiche puntuali sono indispensabili, l’idea di un’agitazione inconsulta contro Parlamenti regolarmente eletti, è irresponsabile in un’area così tormentata (vedi caso ucraino prima citato) e ha un sapore di arroganza, questa sì con tratti razzisti: basta con questi Untermensch, slavi o magiari che siano, che non conoscono le raffinatezze del mondo!
Ah! Quel magnifico giornalismo che parla anche di storia.“Vietnam’s full-on war with the United States last a decade. Its tension with its northern neighbor, China, have persisted for two thousands of Year”. Hannah Beech scrive sul New York Times dell’11 novembre che la guerra-totale tra Stati Uniti e Vietnam è durata un decennio, quella di quest’ultimo Paese con la Cina da un paio di millenni. Che boccata d’aria fresca un giornalismo che dà respiro storico alle sue analisi, che non mette al centro della sua cronaca il fatto che Melania abbia toccato o meno la mano di Donald, che non scrive che “Il fattore Kim serve come carta di distrazione di massa dalle vicende interne di Trump” come fa Guido Santavecchi sul Corriere della Serra del 5 novembre
Dopo Italia-Svezia, adesso ci tocca anche Italia-Finlandia. “Non mi è piaciuta l’esortazione al governo italiano a non mentire” dice Piercarlo Padoan al Corriere della Sera del 19 novembre. Devo innanzi tutto premettere che Padoan è una persona che rispetto, con il suo aspetto pacato, con la sua competenza ed esperienza accumulate, con il terribile sforzo a cui si sottopone a dover rappresentare le ragioni di Mario Draghi rispetto a un teppista come Matteo Renzi. Certo, non condivido alcune sue scelte e considero in generale molto grigia la sua capacità di comunicare alla nazione una visione. D’altra parte come pretendere una visione vigorosa in un governo come quello Gentiloni? L’unico che un po’ ce la fa è Marco Minniti ma perché ha scelto di parlare alla base sociale del centrodestra invece che a quella del centrosinistra, Tornando al ministro dell’Economia, scontati gli apprezzamenti già fatti, vederlo fare a pugni con Jyrki Katainen da una parte rafforza il mio rispetto verso di lui, dall’altra mi mette in agitazione. Abbiamo appena perso con la Svezia, (poi se vogliamo anche con l’Olanda) e adesso ci ripetiamo con la Finlandia?
La ciclopica impresa di “minimizzare” Pisapia ancor di più di com’è in realtà. “Cercano di ridicolizzare Pisapia, minimizzano” dice Matteo Renzi alla Stampa del 20 novembre. Secondo il segretario del Pd, i bersanian-dalemiani cercano di minimizzare Pisapia. Ma che cavolo di tecnologia subatomica hanno scoperto questi schifosi neomassimalisti per realizzare un’operazione così impervia?