Popoli e Religioni

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Popoli e Religioni

22 Gennaio 2007

Presentazione della Rivista Oasis alle Nazioni Unite
New York, 17 gennaio 2007

1. Un processo in atto

Il tema scelto per la presentazione della rivista Oasis Al Waha Naklistan, promossa dall’omonimo Centro Internazionale di Studi e Ricerche di Venezia, riceve tutta la sua luce solo se situato nel frangente storico odierno, con tutta la sua complessità non sprovvista di conflitti.
Sono solito descrivere questo frangente ricorrendo alla categoria di meticciato di civiltà e di culture. Almeno fino ad oggi, mi appare la più capace di leggere e di suggerire piste di comprensione e di accompagnamento critico del processo sottolineo la parola processo – in atto. Basti citare il dato impressionante che due miliardi di persone sono in procinto di emigrare. La categoria di meticciato di civiltà e di culture, non priva di conferme storiche – se usata con prudenza – nei termini ad esempio che il Larousse impiega quando la definisce come «production culturelle résultant de l’influence mutuelle de civilisations en contact» – sembra a me in grado di illuminare un po’ meglio la molteplice complessità dei fenomeni emergenti dall’inedito ed inevitabile intreccio di popoli, razze, culture e religioni che ci sta costringendo a ridefinire i rapporti tra gli Stati ed a pensare un nuovo ordine mondiale. Né voglio tacere il fatto che noi uomini delle religioni siamo convinti che tutti i popoli sono alla fine parte di un’unica famiglia umana perché hanno in comune un’esperienza elementare (natura umana?). Viviamo poi nella certezza di un Dio che guida la storia.
Definire con il termine meticciato di civiltà e di culture il processo in atto in quest’epoca di travaglio, rende inoltre più agevole leggere i dati, talora brucianti, della cronaca, per meglio affrontare problemi diventati oggi particolarmente complessi quali la pace, la guerra, il terrorismo, la giustizia, la libertà, i diritti, le democrazie. Non è superfluo notare che la qualifica di “civiltà” apposta al termine “meticciato” lo tiene al riparo da semplicistiche letture etniche ed antropologiche.

2. Diritti fondamentali, democrazie e religioni

In una sede come questa la nostra riflessione deve chinarsi sull’articolazione sociale e civile di questo processo di meticciato di civiltà che vede gli uomini e le comunità religiose impegnati in prima persona. Concretamente è possibile individuare nel riconoscimento o meno della valenza pubblica delle religioni uno dei nodi cruciali del processo di meticciato.
A dire degli studiosi negli Stati Uniti è presente anche se non prevalente una concezione che generalmente dà piena cittadinanza alle motivazioni religiose di ciascuno. Già i Padri fondatori avevano in qualche modo voluto uno «stato laico senza laicismo di stato». La sfera politica è chiaramente separata dalla sfera religiosa, ma è disposta a dialogare con essa perché è ben consapevole che nessun governo può produrre cittadini morali, ma al contrario sono cittadini morali sovente ispirati dalle religioni a favorire la democrazia. Così ad esempio gli evangelicals, cristiani metodisti, battisti, pentecostalisti – in forte espansione a partire dagli Stati Uniti anche in America Latina (Brasile), Asia, Africa, riescono a fare proseliti addirittura in territori a prevalenza musulmani – intrecciano in profondità la loro fede con la cultura americana. Qualunque lettura si voglia dare di questi movimenti religiosi, che tuttavia conviene non sottovalutare, essi mi sembrano confermare l’affermazione che «vi è un’importante lezione nell’esperienza americana della diversità religiosa all’interno di una struttura politica e sociale democratica: la fondazione religiosa della cultura è sufficientemente ampia per accogliere coloro che tentano di vivere secondo una delle tre grandi tradizioni di fede abramitiche, [ed in ogni caso di preservare] la libertà individuale di credere [o non credere] e praticare [o no praticare]».
In Europa invece ci troviamo a convivere con una situazione in cui «la globalizzazione enfatizza una soluzione di neutralità culturale: per la democrazia occidentale odierna tutte le religioni sono ‘uguali’ (in-differenza). La sfera pubblica è dichiarata neutrale verso le religioni () Alle diverse religioni si chiede e si impone di considerare il loro universalismo come un fatto privato, interno al loro ambito di influenza».
Al di là di queste considerazioni di ordine storico attuale, si sta sempre di più diffondendo la tendenza ad opporre all’universalismo delle religioni il riferimento ai diritti umani, nei quali si concentra lo sforzo di dare espressione ad un universale umanistico da tutti riconoscibile. Ciò renderebbe più percorribile la strada di una pacifica convivenza sociale in un contesto pluralistico.
A nessuno di noi sfuggono i vantaggi che le dichiarazioni dei diritti umani possiedono. Esse, infatti, hanno avuto e tuttora hanno l’alto valore negativo di costituire una barriera etico-giuridica nei confronti dell’invasività del potere politico in genere e statuale in specie e l’alto valore positivo di offrire un linguaggio utile al confronto etico-giuridico tra i soggetti, le culture e le religioni.
Eppure non possiamo nascondere il limite fondamentale di queste dichiarazioni. Infatti la loro universalità è inevitabilmente “astratta”. Riguarda aspetti della “dignità” umana, di cui si riconosce il valore insuperabile che necessita di protezione giuridica. Le dichiarazioni dei diritti umani fanno leva su un’assiologia aprioristica rispetto alla condizione storica, che di necessità procede deduttivamente da un modello antropologico ideale, bisognoso di un consenso fortemente impegnativo. Ecco perché l’universalità di tali diritti umani subisce contestazioni, come universalità “di parte”; soprattutto da tradizioni universalistiche, come quelle orientali, che si sono formate per lo più al di fuori del travaglio dell’universalismo moderno.
Possono le esperienze religiose ovviare in qualche modo a questo limite per accrescere la loro capacità di edificazione sociale e, quindi, per diventare protagoniste di una più adeguata promozione dei diritti umani? Ritengo che a questa domanda si possa dare una risposta positiva. Si tratta di pensare i rapporti tra i soggetti storici realmente all’opera nelle nostre società tra i quali le religioni spiccano per la loro singolare importanza e i criteri della loro possibile convivenza.
A questo proposito mi sembra di fondamentale importanza riconoscere il dato che l’humanum come tale (dimensione universale) si dà sempre e solo nella concreta vita degli uomini e delle comunità (dimensione particolare). Così ogni comunità di uomini, con le manifestazioni culturali che la caratterizzano, è espressione dell’universale humanum ma lo è nelle forme culturali storicamente determinate che sono sue proprie. Così si danno condizioni antropologicamente strutturali di una cultura, che sono universali, ma che vivono in attuazioni storiche e comunitarie sempre particolari.
Se questa è la struttura delle culture che esprimono le comunità umane e quindi anche i soggetti religiosi -, questo sarà anche il fondamento della loro relazione storica, il presupposto della loro possibile inter-azione (meticciato, interculturalità). Ma, se tale è la struttura, sarà anche impossibile dedurre da essa la fisionomia e il risultato dell’incontro. Questo non sarà possibile se non a posteriori. Quali saranno gli elementi di comunanza e/o di riconosciuta universalità è qualcosa che le comunità religiose e le loro espressioni culturali definiranno solo nel loro incontro e scontro, mescolamento ed estraneamento storici.
Per favorire questo processo è necessario uno Stato capace di dar spazio in forma adeguata ad una società civile di natura plurale e che per questo non sarà mai priva di aspetti conflittuali. Penso ad uno Stato non “distaccato” che, pur non facendo propria una specifica visione, sia dichiaratamente al servizio della persona e delle esigenze ultime che la costituiscono (desiderio di libertà e felicità, di compimento), che faccia nel contempo propri i grandi valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica (libertà civili e politiche) generata da corpi intermedi. Quindi non uno Stato inteso come un anonimo vuoto contenitore da riempire a piacimento (opzione debole e, di fatto, irrealizzabile), ma uno spazio, certamente non confessionale, in cui, senza trascurare le tradizioni, ciascuno possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune, nell’inevitabile e rispettosa logica del confronto e del riconoscimento che sola salva la vera natura del potere. Ecco perché è necessario, mi riferisco qui soprattutto all’Italia e all’Europa, parlare di “nuova laicità”.
Questa nuova laicità può costituire un progresso rispetto alla tradizionale categoria di tolleranza, che accetta la presenza nella società e nell’ordinamento delle religioni e delle diverse culture senza riconoscerne e favorirne il potenziale di positività. Infatti attraverso questa visione dell’universale concreto delle comunità religiose viene riconosciuta l’originalità di ciascuna tradizione religiosa nella sua portata universale e, in questo senso, si impone il superamento della logica che ammette pari tutela delle varie tradizioni culturali nella misura in cui abbiano denominatori comuni. Dal punto di vista giuridico una tale proposta rende invece possibile che la tutela delle religioni acquisti un “fondamento differenziato”. Per i non credenti, consiste nel riconoscimento del beneficio che una religione arreca alla comunità; per i credenti, nel valore intrinseco del loro credo.

3. La logica della testimonianza

Come gli uomini delle religioni possono affrontare questo affascinante compito di edificazione sociale nell’accompagnamento critico del processo di meticciato di civiltà e di culture?
La strada che ci permettiamo umilmente di indicare è quella che ha visto nascere la rivista Oasis e il Centro che la promuove. Possiamo individuarla nel tema della testimonianza, intendendo questa categoria in tutta la sua forza teoretica e pratica. La testimonianza chiama in causa ogni uomo ed ogni donna, invitandoli ad esporsi, a pagare di persona, a non decidere in anticipo fino a dove si può arrivare nell’incontro e nel dialogo con l’altro. Alla testimonianza nessun uomo può sottrarsi, in forza del rischio implicato dalla libertà che non è mai definibile a priori. L’umana libertà non si può mai “dedurre”, ma il suo pieno significato si dà solo nell’atto che la performa.
Fin dalla filosofia greca il fatto che la libertà sia per la verità rappresenta un indiscusso caposaldo della mind europea. Più difficile è stato per il pensiero europeo comprendere il pur insopprimibile principio della verità della libertà. Eppure la rivelazione biblica contiene il nucleo teoretico di tale principio. La verità è l’incontro che avviene tra il fondamento assoluto e trascendente e l’uomo. Il fondamento si attesta all’uomo nel singolo atto di libertà chiamandolo al coinvolgimento. La Verità si fonda su un Dio che si auto-espone nella storia per venire all’incontro dell’uomo. Nella tradizione cristiana poi la verità, pur mantenendo tutto il suo carattere di assolutezza, è verità vivente e personale. È l’evento stesso di Gesù Cristo, Figlio di Dio, che Si offre alla libertà finita degli uomini fino al punto di lasciarsi crocifiggere. La verità quindi non teme di consegnarsi alla libertà.
Oasis vuol percorrere le strade accidentate della testimonianza. Esse non sono del tutto identificabili a priori. Per questo Oasis è un cantiere sempre aperto.