Possono succedere “fatti imprevisti”

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Possono succedere “fatti imprevisti”

Possono succedere “fatti imprevisti”

17 Aprile 2007

Che cosa dire di un pazzo che entra in una
scuola e si mette a sparare? L’abbiamo visto così tante volte al cinema o alla
televisione che ormai ci sembra un fatto della vita, una di quelle cose che
succedono, e che uno spera soltanto succedano lontane da noi e dai nostri
figli. Anzi, ormai massacri quali quelli avvenuti ieri, 16 aprile, a
Blacksburg, Virginia, fanno notizia soprattutto perché battono i record dei
morti ammazzati in occasioni simili. “Unforeseen things happen”
(“Possono succedere fatti imprevisti”), come disse l’allora ministro
della difesa americano, Donald H. Rumsfeld, in una celebre intervista del 20
febbraio 2003, a proposito dell’Iraq. Ma si tratta davvero di fatti imprevisti,
o non piuttosto di “tragedie annunciate”, per usare una delle più
trite locuzioni del linguaggio giornalistico?

Michael Moore, il regista americano reso
celebre dal film Bowling for Columbine (2002), che raccontava della
sparatoria avvenuta nel 1999 alla Columbine High School di Littleton, Colorado,
non aveva dubbi: il male stava nella stessa società americana e certe cose
potevano succedere soltanto negli Stati Uniti (lui naturalmente si considera
parte della cosiddetta “altra America” senza colpe). A riprova della
mia tesi, sosteneva Moore, basta varcare il confine con il Canada, dove la
gente lascia ancora le porte aperte e le armi da fuoco non si vendono over the
counter
, ai banchi del supermercato. Peccato che dieci anni prima, il 6
dicembre 1989, un certo Marc Lépine fosse entrato con un fucile automatico
nell’École polytechnique di Montréal uccidendo 14 studentesse, in una città che
viene sempre descritta (banalizzando molto) come “così europea”.
Insomma, Stati Uniti o Canada, Columbine High o École polytechnique, la
differenza sta soltanto nel numero dei morti.

Ma l’avete guardato bene il campus del
Virginia Polytechnic Institute and State University (più noto come Virginia
Tech), fondato nel 1789, all’indomani della Rivoluzione Americana grazie alla
donazione di un filantropo? Sullo sfondo dei poliziotti overweight che
tentavano di correre di qua e di là, le avete notate le belle costruzioni in
stile Ivy League, i prati verdi recintati, gli spazi pedonali, le aule, i
cartelli indicatori, i muri senza scritte, l’assenza di rifiuti per terra?
Avete fatto caso, quando le televisioni mostravano le mappe del campus, che al
suo centro ci sono uno stadio per lo sport e una biblioteca aperta e
funzionante venti ore al giorno? Qui ci abitano 24.000 studenti, su un totale
di circa 40.000 persone che abitano a Blacksburg, una della centinaia di
cittadine americane la cui vita è organizzata intorno alle esigenze degli studenti
universitari. Studenti i quali, interrogati da giornali e televisioni,
continuano a ripetere che al Virginia Tech non si sarebbero mai aspettati una
tragedia del genere. Qui non siamo nel ghetto negro di Detroit. Qui non siamo
nel Bronx. Qui siamo nelle campagne della Virginia. Eppure, “Unforeseen
things happen”.

 La realtà è che la qualità della vita nel
suo complesso, almeno quella del mondo occidentale (inclusi gli Stati Uniti), è
enormemente migliorata e continua a migliorare. Ci sono indicatori oggettivi a
provarlo. Restano però, e resteranno ancora per chissà quanto, errori,
omissioni, prepotenze, violenze e atti criminali, che, pur nella loro
eccezionalità, rappresentano sacche di negatività più o meno significative in
ogni comunità. Per combattere questi mali non servono i richiami
sociologizzanti ai mali del mondo che vanno di pari passo sui luoghi comuni
sulle “tragedie annunciate”, ma piuttosto il continuo sforzo di
migliorare la legge e di applicarne le regole. Nessuno si illuda che, negli Stati
Uniti, l’episodio di Blacksburg sia l’ultimo. E nessuno si illuda che, in
Italia, senza una giornaliera applicazione delle regole, sarà possibile
limitare i danni del bullismo scolastico e dell’illegalità strisciante e
diffusa. Questo sono identici nella sostanza a quelli americani, e inferiori
soltanto nel numero delle vittime. Ci siamo già dimenticati del suicidio del
povero Matteo, lo studente sedicenne dell’Istituto tecnico Sommellier di
Torino?
 
Generazione in crisi?
Crollo dei modelli di comportamento? Assenza di ideali?
Società violenta? Tutto vero, indubbiamente, come sostenere il contrario? Ciò
che però più colpisce uno come me, che di mestiere fa lo storico, è come le
società cambino, le generazioni si succedano, i governanti mutino, ma restino
questi lamenti sui mali del mondo che ascoltiamo in treno, leggiamo sul
giornale o vediamo alla televisione. Soprattutto, resta l’implicito e astratto
riferimento a una mai esistita “età dell’oro” in cui la generazione
dei giovani non era in crisi, il comportamento era esemplare, la gente viveva
di ideali, e la società non era violenta. Francamente, fatemi un bell’esempio,
che forse ci crederò anch’io.