“Posti in piedi in paradiso” è un film cristiano che fa morire dal ridere
04 Marzo 2012
Carlo Verdone dopo alti e bassi, successi e appannamenti, torna a girare una commedia davvero eccellente. “Posti in piedi in paradiso” ci libera al contempo da giovanilismi, derivazioni televisive, scelleratezze e sconcezze, meridionalismi e settentrionalismi. Protagonisti del film sono tre sciagurati, affannati da esistenze sbagliate di lavoratori, mariti e padri di famiglia. I tre, date le ristrettezze, si trovano costretti a condividere un appartamento malmesso a Roma. Non sono più ragazzi.
Il primo, Ulisse (Carlo Verdone), faceva il produttore discografico; ora sbarca il lunario vendendo dischi in vinile, con una moglie e una figlia quasi diciottenne, che vivono a Parigi. Il secondo, Fulvio (Pierfrancesco Favino), era un promettente critico cinematografico; ora si deve accontentare di scribacchiare di cronaca rosa e “gossip”, rimpiangendo la moglie a la piccola figlia, lasciate a causa di un tradimento con la moglie del capo-redattore, che gli è costato anche il declassamento lavorativo. Il terzo, Domenico (Marco Giallini), era un imprenditore; ora gestisce malamente un’agenzia immobiliare, ha due figli grandi (uno perfetto, bravo ragazzo e brillante laureando; l’altra un disastro di volgarità e immaturità) e una piccola (avuta con un’altra donna).
Tre uomini molto diversi, costretti a condividere il tetto per risparmiare, legati da infelicità, debolezze e rimpianti. La commedia aveva bisogno di addolcirsi con la presenza femminile. Le debolezze del cuore di Domenico la fanno entrare in scena. Al suo capezzale accorre Gloria (Micaela Ramazzotti), cardiologa carina quanto svampita, appena abbandonata dal più maturo fidanzato e in preda ad una crisi di nervi. Adesso il quadro è completo. Resta comunque l’esistenza dei tre giovani-vecchi, assai dura, tra conti da pagare, alimenti famigliari da onorare, ristrettezze economiche da nascondere.
Ogni giorno è un vortice di peripezie, bugie, promesse, astuzie e meschinità. I tre hanno perso, per motivi assai diversi, mogli, figli, famiglie. Una condizione esistenziale sin troppo comune nella vita moderna. Ulisse, pignolo e rompiscatole, è stato vittima degli eventi per troppo amore; Fulvio, faccia pulita dietro la quale si nasconde ben altro, è stato davvero sfortunato; Domenico, un cialtrone a tutto tondo, è privo di giustificazioni.
Verdone guarda con estrema bontà a questi tre padri, mariti, professionisti disgraziati, partiti con grandi speranze e trovatisi a dover gestire problemi più grandi di loro. Li ritrae con simpatia, benevolenza e umorismo. I meccanismi della commedia sono perfetti. Si ride dalla prima all’ultima inquadratura, con un paio di momenti esilaranti. La trivialità e gli ammiccamenti sessuali sono banditi, così com’era abitudine nella migliore commedia italiana.
Sulle prime “Posti in piedi in paradiso” potrebbe apparire un film sulla crisi economica. In realtà è un film sulla crisi di sentimenti e di valori. Crisi contrastata da Verdone con un finale che, oltre a rappresentare un evidente elogio dell’amicizia e della solidarietà, è un invito al perdono e alla riconciliazione tra padri e figli. A molti commentatori questo finale è apparso posticcio: un messaggio consolatorio e furbesco per assolvere i padri dalle loro colpe e mondarli di ogni peccato. Invece non lo è.
Il percorso di Verdone nella commedia italiana, ormai della durata trentennale (ha esordito nella regia nel 1980 con “Un sacco bello”), ha lambito sempre l’apologo etico, talvolta sfiorandolo, talvolta fallendo il bersaglio. “Posti in piedi in paradiso” è un tentativo di meditazione, divertente e leggera, attorno alla tematica del perdono e della riconciliazione, in senso cristiano, oltreché di comprensione dei limiti della persona umana e di accettazione della vita. Accettazione della vita nonostante crisi economiche e barriere culturali. Vale più l’arrivo di una nuova vita o un prezioso cinturone appartenuto a Jim Morrison? La risposta sta nel finale.