Postilla a Panebianco su Risorgimento, Italia, Europa

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Postilla a Panebianco su Risorgimento, Italia, Europa

Postilla a Panebianco su Risorgimento, Italia, Europa

24 Giugno 2012

Parlando della «condizione in cui versa lo Stato nazionale», Angelo Panebianco nel suo editoriale, Moneta unica democratica, pubblicato sul ‘Corriere della sera’ del 21 giugno, scrive frasi dettate dal più cupo pessimismo. «Dopo centocinquanta anni di unità, il fallimento è evidente: la grande questione italiana, la questione meridionale, non ha mai trovato soluzione. La frattura Nord/Sud è più viva e forte che mai e, con essa, la distanza che separa certe regioni del Sud dal Nord d’Italia. Con la differenza che un tempo la speranza di venirne a capo mobilitava intelligenze, cervelli. Oggi non più. Non esiste più un pensiero meridionalista degno di questo nome. E’ subentrata la rassegnazione. Se verrà meno il vincolo europeo quanto tempo passerà prima che il conflitto territoriale esploda in forme incontrollabili?». Le espressioni di sentimento vanno rispettate e, in questo caso, veicolano un disincanto, se non una disperazione, sulle sorti della res publica, che si capisce fin troppo bene. Sennonché, a guardar le cose «con occhio chiaro e con affetto puro», lo sfogo di Panebianco è quello del fine scienziato politico e del profondo conoscitore della storia moderna e contemporanea, quale egli è o proviene dall’uomo e dal cittadino italiano che si trova a vivere in uno dei periodi più travagliati della vita nazionale?

A prendere alla lettera le sue parole, non resterebbe che dar ragione ai sostenitori (una razza antica) della tesi del Risorgimento tradito, fallito o addomesticato, che dir si voglia. Il capofila di questa saggistica ‘revisionista’ (!) oggi è, soprattutto, Alberto Banti che, nei suoi libri sull’Ottocento italiano e negli articoli del ‘Manifesto’,non si stanca di denunciare i valori tossici—come la lingua, la religione, la natura, la genealogia, il suolo, la stirpe, la razza—che avrebbero avvelenato gli ideali rispettabili del moto unitario—la libertà, la costituzione, la rappresentanza. Banti, tra l’altro, è diventato il guru delle femministe antagoniste come Tamar Pitch, Isabella Peretti, Ambra Pirri, Annamaria Rivera che di recente hanno pubblicato la loro piccola EncyclopédieFemministe a parole. Grovigli da districare, Ediesse 2012—in chiave antinazionale, antirisorgimentale e, ovviamente, antimaschilista.

«La nazione—ha fatto rilevare Tamar Pitch nell’articolo Il corpo delle donne non è della Nazione (‘Il Manifesto’ 26 febbraio 2011) —ha molto a che fare con le donne, ma niente con la loro libertà |…| La nazione non è la somma di individui la cui unica caratteristica è l’essere dotati di ragione. È, in certo senso, il suo esatto contrario, ossia il prodotto organico di relazioni tra soggetti incarnati e storicamente determinati, relazioni basate sulla comunità di lingua, di storia, di tradizione: e di ‘sangue’. Se, dal punto di vista storico, molte nazioni moderne sono piuttosto il prodotto che non il presupposto dello stato, esse vengono invece vissute come ciò che lo legittima. In linea di principio, lo stato è inclusivo: chiunque può aderire al patto. La nazione invece è esclusiva: vi si appartiene per nascita. Lo stato prescinde dai corpi, la nazione ne è costituita. Lo stato non ha un corpo (e non vive, direbbe Brecht, «in una casa con i telefoni»), la nazione invece sì.».

Non sono certo queste le posizioni di Panebianco: per lui, l’Italia è un progetto ragionevole andato a male, per Banti e femministe associate la costruzione unitaria non poteva non andare a male dal momento che conteneva in sé il virus del tribalismo e del razzismo; ma di fatto la notifica di coma irreversibile dello stato nazionale porta, nell’un caso come nell’altro, alla liquidazione per fallimento. E’proprio quello che ci vuole in un periodo, come l’attuale, in cui le uniche certezze incrollabili sono, almeno per chi ci crede, domiciliate tutte al Vaticano (nemico storico–c’è bisogno di ricordarlo?–dello stato unitario)? Ci rincuora il ricordare che i ‘nostri antenati’non ci hanno lasciato nessuna istituzione solida e duratura sicché per noi non avrebbe alcun senso seguire i consigli, che Machiavelli dava nel III Libro dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, :«A volere che una setta o una repubblica viva lungamente è necessario ritrarla spesso verso il suo principio |…| e quelle alterazioni sono a salute che le riducono verso i principii loro»?

Sennonché, mi si potrebbe obiettare, lo studioso serio e coscienzioso non ha il compito di spargere illusioni ma di mostrare la realtà effettuale e non è colpa sua se, nel nostro paese, come diceva Leo Longanesi, il conservatore non ha niente da conservare. Non è la consolazione della retorica, però, che intendo prescrivere ai pessimisti disincantati ma, al contrario,l’aderenza ai fatti e, nel caso in questione, il dovere di non dimenticare la ‘positività’ della storia. Benedetto Croce, che fu Maestro del Maestro di Panebianco, Nicola Matteucci, in una stupenda pagina di Storiografia e idealità morale, accennando a una possibile storia del fascismo, che avrebbe potuto anche scrivere, ammoniva i retori dell’antifascismo «Pure, se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo, toccherei del male solo per accenni necessari al nesso del racconto, e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica, come accade negli spiriti immaturi e giovanili».

Se qualcosa poteva riconoscere Croce al fascismo, quanto di più dovremmo riconoscere  noi agli uomini che, volendo ricongiungere l’Italia all’Europa vivente,  s’impegnarono in una ‘rinascita’ della nazione che apparve un miracolo agli spiriti più eletti dei popoli tra le due rive atlantiche! Possiamo restare in Europa senza avvertire un debito di riconoscenza, senza avere l’orgoglio per quegli uomini, per gli istituti civili che pur riuscirono a creare, tra tante difficoltà, per la cultura che promossero e di cui continuiamo a vivere—a cominciare dall’Università che, come mostrò Pietro Piovani, fu il prodotto più alto dello stato nazionale?

Certo Panebianco ha ragione: la questione meridionale è ancora lì, come una ferita incancrenita della cui   guarigione ormai si dispera. Ma questo  cosa significa: che l’Italia non si doveva fare? O che si doveva fare in altro modo? E in quale modo? Immaginare  che cosa sarebbe successo se Garibaldi non fosse sbarcato in Sicilia e l’esercito piemontese non avesse annesso al Piemonte quasi tutto lo Stato della Chiesa è, forse, più facile, alla luce di quella che Bertrand de Jouvenel chiamava ‘l’arte della congettura’, che non immaginare come si sarebbe potuto procedere diversamente.

Un’Italia centrale e un Regno delle Due Sicilie rimasti indipendenti sarebbero diventati la Coblenza di tutti gli antiliberali della penisola: il Governo della Chiesa avrebbe, per ritorsione contro la filosofia che ispirava la legge delle ‘guarentigie’, accentuato i suoi caratteri repressivi e confessionali, i Borbone avrebbero rafforzato l’assolutismo poliziesco per spegnere in borghesi e intellettuali ogni velleità di rivendicazioni liberali e costituzionali, a imitazione del Nord Italia. I due Stati—Roma e Napoli—sarebbero divenuti sempre più simili alla Spagna di Ferdinando VII e il malgoverno, unito all’oppressione clericale, avrebbe fatto esplodere rivoluzioni politiche e sociali destabilizzanti per l’intera penisola, e, in definitiva, pericolose per lo stesso Regno d’Italia attestato sul confine tosco-emiliano.

Una unificazione fatta da uomini e con strategie diverse? E quali? I democratici, com’è noto, erano profondamente divisi e l’Italia che aveva in mente Giuseppe Mazzini non era quella di Carlo Cattaneo. E quali sarebbero stati, poi, i risultati della scelta alternativa degli ‘Stati Uniti d’Italia’: Gaetano Salvemini, che non era certo tenero con i Savoia e nutriva un vero e proprio culto per Cattaneo, ebbe a riconoscere, negli anni venti, che la federazione nel Sud avrebbe significato consegnare il governo del territorio nelle mani della camorra e dei notabili locali.

A monte di questi rilievi (che un tempo sarebbero parsi fin troppo ovvi) c’è, però, una considerazione che ha a che vedere con la ‘positività’ crociana e che riguarda la genesi, la natura e la funzione dello stato nazionale. Quello italiano non impedì che si allargasse il divario tra il nord e il sud—anche se non si può non riconoscere che le classi poste in fondo alla piramide sociale, dopo gli anni tragici della guerra civile e della repressione del brigantaggio, si sarebbero trovate meno peggio coi Savoia che coi Borboni—ma costituì qualcosa di cui la superficiale cultura contemporanea sembra ignorare l’importanza cruciale: uno spazio allargato sottoposto alle stesse leggi e reso progressivamente omogeneo dalla stessa cultura.

Lungi dall’essere la negazione del liberalismo (e dell’individualismo), quello spazio garantiva la libertà di individui che potevano muoversi liberamente da un capo all’altro della penisola, ritagliarsi un posto al sole dove si profilavano le migliori opportunità di lavoro e di guadagno, far valere dovunque le competenze acquisite (il diploma o la laurea presi a Messina equivalevano a quelli presi a Milano e così gli altri attestati professionali e gli apprendistati artigianali), potevano sottrarsi alle pressioni familiari e ambientali delle comunità ristrette e metter casa a centinaia di chilometri di distanza.

La ‘grande finzione’dello stato nazionale stava nel far sentire <a casa> gli italiani dovunque avessero scelto di abitare e di lavorare: ci si poteva trovare a disagio, per qualche tempo (anche lungo) trasferendosi da Bari a Pavia ma la bandiera che sventolava sugli uffici pubblici, le leggi, i regolamenti, i diritti civili erano gli stessi in Puglia e in Lombardia. Nei giorni feriali, le differenze non erano affatto rilevanti: sui luoghi di lavoro norme e pratiche erano pressoché uguali dappertutto; erano le domeniche difficili da gestire per i soggetti dell’emigrazione ‘interna’ ma anche qui, prima o poi, contribuivano a far uscire dalla solitudine e dallo spaesamento i ‘matrimoni misti’, i nuovi legami di parentela, le comunità di amici, le stesse parrocchie. Il successo del Risorgimento, come ho rilevato in altra sede, è l’elenco telefonico, sono le migliaia di cognomi meridionali che troviamo in quelli di Torino, di Milano, di Bologna: un flusso enorme di corpi e di anime che ha fatto di un paese così diverso e storicamente diviso una vera e propria ‘comunità di destino’. Il  meridione, va riconosciuto, non ha ricavato gli attesi benefici dal 1861   ma i meridionali e non soltanto loro, uti singuli, ne hanno tratto non pochi vantaggi.

Quando, ormai molti anni fa, andai a trovare Indro Montanelli che abitava in un viale  di Milano—elegante, sì, ma che avrebbe potuto trovarsi in qualsiasi altra grande città europea, a Berlino come a Budapest– gli chiesi come potesse un toscano che aveva avuto per capitale l’Atene dell’età moderna, vivere in un luogo così. Mi rispose che Milano gli aveva dato tutto mentre se fosse rimasto a Firenze avrebbe fatto il correttore di bozze della Vallecchi. Noi tendiamo a considerare scontato e naturale ciò che è stato costruito dai nostri avi e non ci rendiamo conto delle ‘rivoluzioni culturali’che ne sono derivate. Certo, per i poveri braccianti del Sud, ci vollero anni e anni prima di poter optare per l’emigrazione interna invece che per quella esterna, nelle lontane Americhe, in cui si riversarono centinaia, milioni di siciliani, campani, calabresi etc.

E tuttavia, nel disegno dei padri fondatori, c’era l’idea (liberale) che si dovessero incoraggiare le regioni fornite di risorse e capacità tali da farci entrare nel gruppo di testa delle nazioni moderne e industrializzate, anche a costo di occuparsi meno delle regioni meno favorite dalla natura, giacché il benessere  prodotto dalle prime avrebbe comportato condizioni di vita migliori per tutti. Un nord produttivo e lanciato sulla via del progresso avrebbe attirato braccia e competenze da tutto il paese: gli italiani sarebbero stati  sradicati dalle piccole comunità ma  per trapiantarsi in comunità più grandi. E a trasmigrare non era solo ‘la gente meccanica e di piccolo affare’. Lo stato accentratore—oggi visto come l’origine di tutti i mali di cui soffriamo—spostava insegnanti, funzionari pubblici, militari da un capo all’altro: il magistrato lucano, vincitore di concorso, poteva essere assegnato, in base a graduatorie prestabilite, al tribunale di Lucca o di Brescia e il capitano Giordani del Brigante di Tacca del Lupo essere destinato a Melfi: nello spazio omogeneo, non contava l’ inflessione dialettale ma il   grado e le  funzioni di ciascun dipendente pubblico: un militare di Mercato San Severino, Armando Diaz, che nei momenti di stizza si esprimeva in dialetto napoletano, poteva diventare il Capo di Stato Maggiore ed avere come sottoposti ufficiali piemontesi di antichi casati sabaudi. In fondo, la stessa famiglia di Angelo Panebianco, uno scienziato politico che onora l’Ateneo bolognese, non viene dalla Sicilia profonda? E tutto questo non è da mettere all’attivo del Risorgimento?

Dovremmo non dimenticare la magistrale lezione di Ernest Gellner e la sua spiegazione ‘politologica’ del ‘nazionalismo’—inteso da lui, all’inglese, come cultura dello stato nazionale’. Nel suo libro più noto, Nazioni e nazionalismi (1983)—tr. it. Editori Riuniti, Roma 1985—il filosofo anglo-praghese, mette in relazione l’ordine industriale—noi diremmo, tout court, il processo di modernizzazione—con l’omogeneità all’interno delle unità politiche «per lo meno quel tanto che permetta una mobilità senza eccessivi problemi e che impedisca l’identificazione ‘etnica’ sia dei vantaggi sia degli svantaggi economici o politici». Nella società industriale «numerosi fattori–l’istruzione universale,la mobilità e quindi l’individualismo,la centralizzazione politica,il bisogno di una costosa infrastruttura educativa» determinano una situazione in cui i confini culturali e politici sono nel complesso corrispondenti.

Lo Stato è, anzi tutto,il protettore non di una fede ma di una cultura,il garante di un sistema educativo, standardizzato e inevitabilmente omogeneo,che solo può produrre quel tipo di personale in grado di passare da un lavoro all’altro, all’interno di una economia in sviluppo e di una società mobile,e di svolgere attività che richiedono la manipolazione di significati e persone più che di cose. Per la maggior parte di questi uomini tuttavia,i limiti della loro cultura sono i limiti, forse non del mondo,ma certo della loro stessa possibilità di lavoro e quindi della loro stessa dignità».

Nelle chiuse comunità del passato—in prevalenza agricole–« i limiti della cultura erano i limiti del mondo,e la cultura di per sé rimaneva spesso qualcosa di ignoto,di invisibile: nessuno pensava ad essa come al confine politico ideale. Ora,con la mobilità,è diventata un dato visibile e costituisce il limite della mobilità dell’individuo, ciò che circoscrive la gamma di recente ampliata delle sue possibilità di lavoro;e diventa così il confine politico naturale» Proprio perché costituisce una risorsa vitale, gli  uomini amano  la loro cultura,perché« sanno che fuori di essa non potrebbero respirare o realizzare la loro identità. La cultura superiore(letterata)nella quale sono stati educati è, per i più l’investimento maggiormente prezioso,il nucleo della loro identità, la loro sicurezza, la loro garanzia. E’ dunque emerso un mondo che in generale, salvo eccezioni minori, soddisfa l’imperativo nazionalista, la corrispondenza di cultura e società-Stato».

Non altro, a ben riflettere, era il senso dell’accennato enorme investimento universitario  fatto approvare dalla Destra storica—Quintino Sella, lo statista che voleva stringere la cinghia, avvertiva che su due capitoli di spesa non si poteva risparmiare, Roma e la scuola. Il compito era quello di rimboccarsi le maniche per « fare gli Italiani», far sentire le glorie del passato come ‘beni culturali’ comuni, far retrocedere le patrie di un tempo a ‘unità amministrative’ e i loro abitanti (se residenti nelle grandi città che avevano scritto la storia dell’Occidente medievale e moderno) come semplici custodi di patrimoni appartenenti a tutti. In quest’ottica, tanto per esemplificare, Piazza San Marco non era più dei veneziani ma costituiva motivo d’orgoglio—e oggetto di ‘appartenenza’—per tutti gli italiani che ne affidavano la cura agli antichi abitanti.  

Oggi questo ‘mettere in comune’, nello spazio nazionale, non è più sentito come un valore: per gli universalisti diritti e risorse dovrebbero essere a disposizione di ogni abitante del pianeta; per i micro-nazionalisti, ognuno—anche nell’ambito dello stato nazionale—dovrebbe restare a casa e amministrare le sue faccende del tutto indipendentemente dagli altri:gli uni vorrebbero ripopolare Milano di africani, asiatici, islamici, politeisti, indiani e quant’altro; gli altri vorrebbero far ritornare palermitani e napoletani nei luoghi  d’origine dai quali erano partiti, illudendosi che la «casa degli Italiani» si estendesse da Aosta a Pantelleria. Diversi in tutto, concordano nel vedere nello stato nazionale il cancro della civiltà moderna ignorandone, avendo perduto il ‘senso della storia’, l’origine e la natura. Quando non sono ostili al liberalismo e ai suoi assunti filosofici, gli uni e gli altri  non riescono a spiegare come in Cavour potessero convivere il liberale e il  nationalist se non come una delle tante stranezze della nostra storia.

Con questi rilievi, beninteso, non intendo negare la crisi profonda in cui versa, e non da oggi, la costruzione risorgimentale (lo stato nazionale, però,  è in crisi quasi dovunque dinanzi alle sfide inedite della globalizzazione) bensì solo richiamare l’attenzione sui valori civili e liberali che presiedettero a quella costruzione. E’ innegabile che essa, in Italia—e non solo in Italia—non riuscì a impedire che i cittadini, resi eguali sul piano dei diritti civili, fossero poi mobilitati in politiche di potenza dagli esiti talora totalitari ma ciò non deve far perdere di vista che è pur sempre allo stato nazionale che si lega, nel bene e nel male, la nostra identità.

Se davvero si vuol fare l’Europa e deciderne i destini, non possiamo presentarci come «un volgo disperso che nome non ha»–e che senza l’Europa sarebbe limatura di ferro senza la calamita che ne tenga assieme i frammenti—ma come una comunità politica consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri, delle sue colpe ma anche delle sue potenzialità. In Europa, si sta a testa alta: entrarci da malati cronici che sperano di guarire mescolandosi agli altri partner  sani, significa la rinuncia –dovuta a incapacità– a fare la nostra parte nella storia, dopo che i nostri predecessori hanno fatto (bene o male) la loro. Forse è il caso, parafrasando la famosa frase di Kennedy, di chiederci non quello che gli architetti dello Stato unitario hanno fatto per noi ma quello che noi faremo per non venir meno alla loro consegna. Legarci all’Europa era anche nei loro disegni ma sarebbero inorriditi all’idea di vederci entrare, piagnucolosi, e col cappello in mano.