Preparatevi figli di “Blade Runner”, papà sta per tornare
15 Luglio 2012
Hiroshi Ishiguro, ingegnere, docente di robotica all’università di Osaka, in Giappone, ha un biglietto da visita davvero sorprendente. Da una parte c’è il suo volto; dall’altra sempre il suo volto. Il problema è che da un lato la testa è del vero Hiroshi; dall’altro, invece, è lo stesso Hiroshi, ma in realtà si tratta di gemello androide, un robot dalle sembianze umane, frutto del progetto di ricerca Geminoid. Non è facile identificare immediatamente il volto umano e quello replicante. Bisogna osservare con attenzione i due volti, per capire esattamente chi è l’umano, e chi il simulacro.
Prendemmo confidenza con gli androidi trent’anni fa, grazie ad un film, “Blade Runner” di Ridley Scott, tratto da un libro uscito nel 1968, opera di un romanziere di fantascienza sino ad allora poco conosciuto, Philip K. Dick. Il libro aveva un titolo davvero curioso. “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (“Do Androids Dream of Electric Sheep?”). La Warner Bros., che aveva prodotto il film, temeva un fiasco. La catastrofe fu evitata. Ma il film marciava a passo lento. Una proiezione a San Diego, prima dell’uscita, si era rivelata un disastro. Produttore e regista erano corsi ai ripari. Tagli, aggiunte, cambiamenti, qualche idea nuova. Ma i dubbi di entrambi erano rimasti. E il pubblico li stava confermando. Iniziava così, traballando, l’avventura dell’opera del cinema contemporaneo più amata, adorata, citata, commentata, studiata, capita, fraintesa. E soprattutto vista, grazie ad una prodigiosa operazione di continui rifacimenti (mai essenziali) e divulgazione di chiarimenti, illuminazioni e confessioni da parte del regista (anch’essi mai essenziali).
Se la prima uscita di “Blade Runner” non fu spettacolare (36 milioni di dollari, con il prezzo medio del biglietto a circa tre dollari: oggi sta quasi a otto), la fortuna commerciale del film all’estero, come spesso avviene per i prodotti americani, si rivelò migliore. Ma l’aspetto più importante fu lo scatenarsi di una vera e propria ossessione per il film di Ridley Scott da parte dei giovani. La scintilla scattò subito, e l’inarrestabile espansione della comunicazione nella rete digitale, oltre all’uso domestico del film (prima VHS e poi DVD), hanno alimentato senza sosta il fuoco che ha reso “Blade Runner” un oggetto di culto.
Era chiaro sin da subito che trasporre per lo schermo il racconto di Dick non sarebbe stato un lavoro semplice. Nessuno lo prendeva sul serio, anche se c’era la fila di registi della Nuova Hollywood per dirigere il film: Martin Scorsese, Adrian Lyne, Bruce Beresford, Michael Apted. Ebbe la meglio il regista del momento, l’inglese quarantacinquenne Ridley Scott, una carriera di tutto rispetto nella pubblicità, passato al grande schermo con un’opera d’esordio tratta da Joseph Conrad (“I duellanti”, 1977), seguita da un film di fantascienza, oscuro e muscolare (“Alien”, 1979), dominato da una femmina splendida quanto insolita per il genere, Sigourney Weaver, braccia atletiche, canottiera, pantaloni mimetici, armi alla mano e nemmeno un filo di terrore davanti al mostro alieno.
“Blade Runner” arrivò quando la reaganomics stava mettendo il turbo, e il postmodernismo stava espandendosi ovunque. Gianni Vattimo nel 1983 pubblicava “Il pensiero debole”, e un anno dopo Milan Kundera “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Jean Baudrillard, intanto, trafficava intellettualmente su simulacri e simulazione, cioè sul passaggio dall’umano al post-umano, ritenendo, ”Blade Runner” l’universo del giorno dopo. La storia, già col fiato corto, emetteva gli ultimi sospiri. Insomma come aveva intuito l’oracolare Jean-François Lyotard, i grandi racconti stavano messi davvero male. Roberto D’Agostino la buttò sullo scherzo (però serio e fondato), quando dalla trasmissione Quelli della notte (metà anni Ottanta), lanciò il tormentone dell’edonismo reaganiano. Eppure, a pensarci bene, se c’è un film edonista e reaganiano è proprio “Blade Runner”, indiscutibile specchio nel quale si riflettono stile, architettura e filosofia postmoderniste.
Di cosa parla “Blade Runner”? Di tutto. Essendo un’opera aperta, ognuno può piegarla al proprio uso. Un concetto però possiamo fissarlo: parla della morte di Dio. Un tempo i grandi racconti (la Bibbia, ad esempio) ricordavano che gli uomini erano stati creati da Dio. Bene, in “Blade Runner” gli uomini adesso li fabbrica la Tyrrel Corporation (eccolo finalmente l’oltre-uomo, o superuomo, invocato da Nietzsche): esseri umani (non robot ma replicanti), copie degli umani (alla pari del software del computer), sempre più forti, intelligenti e potenti. Un lotto di replicanti è riuscito male. Bisogna ritirali, poiché fanno male al mercato. Come in un vecchio western, ambientato però nella Los Angeles del 2019 (quasi ci siamo!), tempestata dalla pioggia e dalla notte perenne, il «cacciatore di taglie» Deckard (Harrison Ford) deve ritirarli (accopparli). Ad uno ad uno li fa secchi, spesso in combattimenti spettacolari. Un po’ pistolero alla John Wayne un po’ detective esistenzialista alla Humphrey Bogart, Deckard si innamora di una replicante, Rachel, vestita come Ava Gardner in un noir anni Quaranta.
Finale luminoso, o finale in tinta con l’oscurità imperante? La volpe di Ridley Scott prima scelse la luce. Deckard e Rachel viaggiano in macchina. Dieci anni dopo, si pentì. Inveì all’indirizzo delle intollerabili imposizioni dei produttori (ma non era vero) e sfornò il “Director’s Cut”. Finale buio, soppressione della voce fuori campo, aggiunta del sogno di un unicorno per far capire che Deckard è un replicante (ma forse lo era già nella prima versione, e non è detto con certezza che lo sia nella seconda). Intanto la tecnologia digitale progrediva: pertanto necessitava una nuova versione della nuova versione, “The Final Cut” (2007). È finita? Macché. In arrivo ci dovrebbe essere il gemello di “Prometheus” (in programmazione negli Stati Uniti), prequel/spin-off di “Alien” (traduciamo alla meglio: cosa c’era prima di “Alien” ma senza collegamenti diretti). Preparatevi figli di “Blade Runner”, papà sta per tornare.