Prepensionare i dipendenti pubblici porterà benefici nel lungo termine
03 Giugno 2008
L’avvio della nuova Legislatura e il concreto dipanarsi dell’attività di
Governo riportano alla ribalta l’ipotesi di porre in essere una terapia
d’urto per la Pubblica Amministrazione, consistente in una manovra che
conduca ad una sensibile e immediata riduzione del numero dei dipendenti
pubblici.
Va ascritto a Lamberto Dini il merito di avere riproposto la questione, con
un intervento su Il Sole 24 Ore del 30 maggio scorso. L’obiettivo indicato è
una contrazione di organico del 5% ( 150.000 risorse ), attraverso un
prepensionamento, senza sostituzione, dei dipendenti che maturino il diritto
pensionistico nel prossimo biennio. Ho utilizzato il termine
“riproposto”, giacché di un suggerimento sostanzialmente analogo si era reso
promotore Nicola Rossi, all’inizio della trascorsa Legislatura. Rossi rimase
affatto inascoltato, per non dire peggio, in corso d’opera governativa.
Con ogni probabilità, memore dell’infausto precedente, Lamberto Dini cerca
di collocare la sua iniziativa nel contesto dei risparmi derivanti "dalle
meritevoli iniziative annunciate dal Ministro Brunetta" e, soprattutto,
richiama, quale paradigma operativo, l’esperienza non conflittuale del
settore creditizio.
Diciamo subito che la proposta Dini appare intrinsecamente valida, tenuto
conto del risultato finale cui mira, sebbene si debba tecnicamente dubitare
che essa sia suscettibile di generare, nell’immediato, un positivo
risultato sui conti pubblici.
Per dirla davvero assai grossolanamente, si possono richiamare due tipologie
di utilizzo dei prepensionamenti, quale strumento di sostegno a situazioni
di ristrutturazione e razionalizzazione delle imprese private: un impiego
del pensionamento privatistico e bilaterale ( preceduto o meno da periodi di
cassa integrazione; con o senza un coinvolgimento delle organizzazioni
sindacali aziendali: il gusto della varietà non trova mai smentita nel
nostro Paese ); un utilizzo sistematico, come nel richiamato precedente del
comparto creditizio, di un ammortizzatore sociale, costituito con accordo
collettivo nazionale e gestito bilateralmente con il sindacato, con connessi
oneri a carico delle aziende e specifici diritti e doveri in capo ai
lavoratori.
Entrambi gli approcci fanno giustamente inorridire i tecnici della
previdenza, posto che si fondano su di un utilizzo distorto e strumentale
del dato pensionistico, confermando il “malcostume” della corsa alla
pensione al maturare del primo diritto utile, proprio allorquando i fattori
demografici impongono a tutti gli ordinamenti previdenziali europei di
convincere i lavoratori al maggior ritardo possibile nell’abbandono della “
vita attiva “. Tralasciando, tuttavia, l’argomento previdenziale, che per
definizione non può che militare contro ogni forma di prepensionamento, le
due richiamate tipologie di induzione al pensionamento si differenziano nei
fatti solo nel minore o maggiore costo per le imprese che se ne avvalgono.
Nell’approccio che convenzionalmente ho chiamato "privatistico", le aziende, fatta salva l’eventualità di un ricorso all’utilizzo di periodi di cassa integrazione, per “ sgravarsi ” anzitempo
di un lavoratore si fanno carico di costi variabili per convincerlo all’
uscita (somme di incentivo all’esodo, corresponsione dell’equivalente della
contribuzione volontaria al sistema pensionistico di base, attribuzione del
corrispettivo, parziale o totale, degli oneri per eventuali riscatti, a
cominciare da quello di laurea, il tutto variamente combinato, arricchito o
smagrito, in ragione del peso del dipendente esodando e, ovviamente, delle
condizioni in cui versa l’impresa) e debbono corrispondergli il TFR,
peraltro regolarmente contabilizzato e, quindi, accantonato nei bilanci
aziendali.
Nell’approccio definito "sistematico", i costi dell’impresa
sono puntualmente preordinati e certo maggiori: in assenza della possibilità
di far ricorso alla cassa integrazione, sulle aziende grava, oltre ad
abbastanza contenuti oneri di incentivazione all’uscita, il costo
sistematico della contribuzione volontaria alla previdenza di base e,
ovviamente al pari dell’ipotesi precedente, quello della corresponsione del
TFR.
In entrambe le situazioni sommariamente richiamate, il giro di boa aziendale
è rappresentato dal pensionamento della risorsa esodata: da quel momento
cessa ogni onere diretto e l’ormai ex dipendente resta definitivamente a
carico del sistema pensionistico pubblico.
L’applicazione ai lavoratori pubblici del paradigma di cui sopra – e
segnatamente del secondo, idoneo a mantenere la pace sociale e certo più
consono ad un intervento della Pubblica Amministrazione – appare assai meno
conveniente. Sotto il profilo pratico, non sembrando francamente ragionevole
istituire un “ fondo esuberi “ a gestione bilaterale, la manovra potrebbe
sostanziarsi nel riconoscere ai pubblici dipendenti sino a 24 mesi di
anzianità figurativa, per lo meno utile anche ai fini del calcolo del TFS (
cioè la ” liquidazione “ dei pubblici ). Ciò aggraverebbe non poco la
situazione di squilibrio dell’INPDAP , l’ ente preposto al pagamento delle
pensioni dei pubblici ( in ultima istanza dello Stato stesso ). L’INPDAP
dovrebbe altresì corrispondere i TFS del caso, per i quali non esistono
specifici accantonamenti, paragonabili a quelli compiuti dalle imprese
private. Ho il forte sospetto che, nell’ immediato, la manovra suggerita da
Lamberto Dini potrebbe essere una mazzata non lieve per i conti dello Stato.
Ciò detto per chiarezza tecnica, reputo, tuttavia, che essa meriti di essere
approfondita e, probabilmente, tentata, in una prospettiva però fortemente
sistematica e di lungo periodo.
Per essere efficace l’intervento dovrebbe:
– essere indubitabilmente una tantum;
– venire accompagnato dal totale blocco pluriennale di nuove
assunzioni, da meccanismi di mobilità ben più agili degli attuali e da una
vera valorizzazione del lavoro pubblico, fatta certo di caccia ( e cacciata
) dei fannulloni, ma anche di premio economico ai lavoratori più attivi e
meritevoli, con totale abbandono della fasulla premialità a pioggia, del
tutto demotivante;
– risultare contestuale ad immediati e sistematici provvedimenti di
riorganizzazione e razionalizzazione della Pubblica Amministrazione, non
disgiunti, attraverso gli strumenti costituzionalmente previsti, anche da
una riconsiderazione degli stessi assetti istituzionali dello Stato ( si
pensi al ruolo delle province e alle funzioni del CNEL, a titolo
esemplificativo ).
In conclusione: se anche la prospettata manovra di prepensionamento di
dipendenti pubblici aggravasse i conti dello Stato, come si può
ragionevolmente temere nell’immediato, ma fosse effettivamente accompagnata
da uno smagrimento sistematico e strutturale della Pubblica Amministrazione,
il gioco varrebbe senz’altro la proverbiale candela.