“Presidente, ecco cosa dovrà fare per difendere l’America e i suoi alleati”
15 Novembre 2008
Congratulazioni, signor presidente eletto, per la sua vittoria. Dopo la più lunga campagna presidenziale della nostra storia lei sa di avere a disposizione 77 giorni per prepararsi a governare. Ma se gli stranieri potrebbero vedere queste undici settimane come un’eternità, lei sa fin troppo bene che si tratta di un tempo breve e prezioso per selezionare i suoi consiglieri e sottoporli alla complessa analisi etica e d’intelligence del loro background, delle loro finanze, dei loro potenziali conflitti d’interesse e di qualunque scheletro possano tenere appeso nell’armadio.
Poi, è ovvio, avranno bisogno di comprendere gli aspetti più intricati delle rispettive responsabilità e, per molti di essi, bisognerà avviare le procedure per la conferma da parte del Senato che potrebbero costare dei mesi. Il tempo, già adesso, comincia a scarseggiare.
L’attuale momento d’incertezza economica finirà per consumare gran parte del tempo e degli sforzi del suo Transition Team, ed è anche normale. Ma nel mondo esterno, mentre il 20 gennaio del suo Inauguration Day si va avvicinando, i nostri avversari e persino i nostri amici stanno attivamente prendendo in considerazione come portare avanti i propri interessi.
Avrà quattro anni pieni di questioni e problemi da affrontare in materia di politica estera, come l’ascesa di Cina e India, il declino dell’Unione europea e il ruolo della Russia, ma io mi sento di suggerire alcune priorità per i suoi primi Cento Giorni.
È lei, signor presidente eletto, che può decidere l’esito della partita.
Benché il presidente Bush abbia cercato di fare di questo concetto il proprio mantra, la sua amministrazione è stata funestata nel primo mandato da una certa incoerenza nel prendere decisioni nel campo della sicurezza nazionale. Non sono state prese decisioni ferme e concrete, non sono state risolte le forti differenze tra i segretari di gabinetto e si è visto troppo spesso la politica oscillare tra opzioni in conflitto prive di consistenza o direzione.
Ironia della sorte, il secondo mandato dell’amministrazione Bush si è prodotto degli errori nella direzione opposta, praticamente eliminando le differenze di opinione tra chi avrebbe dovuto consigliare il presidente fin quando addirittura, in momenti critici, non c’è stata un’unica voce a parlare al suo orecchio. Lei dovrà evitare di cadere in entrambe queste trappole, e dovrà metterlo in chiaro immediatamente. Dovrà risolvere i disaccordi tra i suoi advisers, non consentire che si vada avanti senza meta e insistere sulla disciplina una volta che avrà preso una decisione.
Se ci sarà qualcuno che non sarà d’accordo con questo tipo di approccio, potrà invitarlo a fare la cosa più onorevole e a rassegnare le dimissioni o, direttamente, a non accettare l’incarico. I mullah che comandano a Teheran non hanno alcuna intenzione di farle godere una “luna di miele” dopo la fatica della campagna elettorale. Si muoveranno velocemente per mettere alla prova la sua determinazione, sia riguardo alla rapida espansione dei loro programmi di arricchimento dell’uranio che riguardo al loro massiccio appoggio al terrorismo internazionale.
Quasi sei anni di diplomazia europea non sono riusciti a rallentare il programma nucleare iraniano. Cinque risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con le quali si chiedeva all’Iran di arrestare l’arricchimento dell’uranio (imponendo sanzioni ridicolmente deboli) non hanno avuto in sostanza alcun effetto.
La Russia in particolare sta sfruttando l’Iran come arma per distruggere la nostra politica in tutto il Medio Oriente. Mosca starà dunque a guardare come Lei deciderà di agire con la stessa attenzione di Teheran. Come a ogni nuovo presidente, consiglieranno anche a Lei d’impegnarsi almeno in qualche nuovo sforzo diplomatico. Ma non si lasci prendere in giro. Insista su tre mesi di negoziati intensi e in buona fede: saranno sufficienti per verificare se le intenzioni di Teheran sono davvero serie.
Se non si riveleranno tali, e io credo che sarà proprio ed evidentemente così, sospenda subito i negoziati. Poi diriga gradatamente gli sforzi verso le uniche opzioni che, per quanto possano essere poco attraenti, hanno la possibilità di fermare l’Iran nel suo processo di acquisizione di armamenti nucleari. E cioè un cambiamento di regime o l’uso della forza militare mirato al programma nucleare di Teheran.
Se aspetterà più a lungo si troverà a che fare col peggiore dei mondi possibili: un Iran munito di armi atomiche e la minaccia, ancor più grande, di un’ulteriore proliferazione nucleare, con gli altri Stati mediorientali che trarranno le debite conclusioni da un eventuale successo di Teheran nell’ostacolare i nostri sforzi per la non proliferazione.
Corea del Nord
Ci prenderemmo decisamente in giro se pensassimo che la Corea del Nord metterà mai fine volontariamente al proprio programma di armamento nucleare. Anche nel corso della campagna elettorale, mentre l’amministrazione Bush sperperava il nostro potere negoziale, la Corea del Nord andava avanti nel tentativo di sviluppare tecnologia per missili balistici.
Come con l’Iran, non c’è alcuna possibilità concreta che la Corea del Nord possa essere convinta tramite semplici negoziati a rinunciare ai propri armamenti nucleari. Inoltre, con il mondo che ignora praticamente del tutto lo stato di salute di Kim Jong II o i piani per la successione del regime, è ancora maggiore l’incertezza che circonda questo paese che, più che a una nazione, fa pensare a un campo di concentramento. Aspettarsi che i colloqui a sei che da tanto tempo vanno avanti riescano a “risolvere” il problema nordcoreano è pura illusione.
Al contrario, dovrebbe considerare come la più alta priorità tra le nostre relazioni bilaterali il trattare direttamente con la Cina e insistere sul fatto che è necessario agire congiuntamente per eliminare l’attuale regime di Pyongyang e il suo programma nucleare e, in ultimo, riunire la penisola coreana.
La Cina deve comprendere che lasciare la Corea del Nord in possesso di armamenti nucleari non è un’opzione praticabile e che una mancata azione avrà un impatto sempre più negativo sulle nostre relazioni bilaterali. Solo Pechino può cambiare la Corea del Nord, ed è un processo al quale bisogna dare inizio.
L’immagine degli Stati Uniti
Non lasci che l’“opinione pubblica” globale sugli Stati Uniti, dall’Albania allo Zimbabwe, la dissuada dal fare quel che ritiene sia giusto per l’America. Il suo lavoro è difendere e portare avanti i nostri interessi e i nostri valori, un’impresa che invariabilmente darà un dispiacere ai nostri avversari e persino a molti dei nostri amici, in particolare a coloro i quali preferirebbero che fossimo, beh, un po’ più europei nei nostri comportamenti e nelle nostre attitudini.
Quel che noi dobbiamo fare in ogni caso è sostenere nella maniera più efficace possibile le politiche che deciderà di perseguire. L’aver fallito a livello politico sia a Washington che all’estero, come l’aver fallito anche a livello di Servizi Segreti, ha reso l’amministrazione Bush una delle presidenze più incapaci a esprimersi della nostra storia. Dovremmo cercare di cambiare l’opinione pubblica internazionale in modo che appoggi le nostre politiche e non, al contrario, modificare le nostre politiche nel tentativo di soddisfare l’opinione pubblica internazionale. Il dipartimento di Stato non comprenderà questa distinzione. Lei, presidente eletto, deve.
Un’ultima parola
Un gran numero di commentatori americani e stranieri sono stati alquanto solerti nel dirci che l’America è in declino e che il nostro ruolo in futuro non sarà più quello che era un tempo. Costoro avranno ragione solo se lei cadrà vittima del loro pessimismo.
E se lo farà, stia pur certo che entro breve tempo queste voci assumeranno un atteggiamento critico nei confronti dell’“isolazionismo americano” proprio come negli ultimi anni sono state critiche nei confronti dell’“unilateralismo americano”. Signor presidente eletto, non riuscirà mai a soddisfarli. Difenda gli Stati Uniti e i loro amici, il resto verrà da sé.
© Wall Street Journal
Traduzione Andrea Di Nino
John R. Bolton è senior fellow all’American Enterprise Institute (AEI) di Washington. Dal febbraio 2005 al dicembre 2006 è stato ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU.