Previdenza complementare: anche qui serve una nuova fiscalità

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Previdenza complementare: anche qui serve una nuova fiscalità

06 Ottobre 2009

La tematica di una revisione verso il basso dell’imposizione tributaria, vuoi quale momento “etico”  di compensazione del cinico ma necessario realismo che è stato alla base della manovra che va sotto il nome di scudo fiscale, vuoi quale  lucida scommessa su uno strumento di incentivazione della ripresa economica, passa anche per una coraggiosa riconsiderazione della complessiva fiscalità della previdenza complementare.

Prima di entrare, sia pur sommariamente, nel merito tecnico della questione,  corre l’obbligo di dire che sulle pensioni di secondo pilastro è giunto veramente il tempo di compiere una scelta definitiva  per il futuro welfare del Paese.

Delle due l’una:

–      o si è veramente convinti che un sistema pensionistico misto, fondato su una ripartizione solidaristica gestita e garantita in via pubblicistica, a cui si giustapponga una componente a capitalizzazione, tendenzialmente individualistica, priva di garanzie e gestita in chiave privatistica (sia pure  sottoposta a rigorosa vigilanza pubblica) sia l’unica strada, ragionevolmente praticabile, per assicurare un complessivo “decente” (dovremmo dire “adeguato”, ricordando il dettato costituzionale)  trattamento pensionistico alle coorti di ritirati dal lavoro attivo di qui a due o tre lustri al massimo e, allora, la determinazione di perseguire lo sviluppo della previdenza complementare va assunta come effettivamente strategica;

–      ovvero si reputa che, anche nei prossimi decenni, il sostegno economico fondamentale degli anziani possa restare la pensione pubblica di base, tutt’al più “aiutata”, non in via sistematica, da trattamenti complementari costituiti dai cittadini più prudenti e maggiormente votati al risparmio (per gli altri, al peggio, provvederà l’assistenza) e, allora, si può tranquillamente dire che, negli ultimi anni, si è già fatto addirittura fin troppo per le pensioni private e non è certo il caso di “spendere” ulteriori risorse per esse.

Al di là di una minoritaria componente di sinistra, fortemente ideologizzata, tra la classe dirigente del Paese non vi nessuno, tanto di maggioranza quanto di  opposizione, che, almeno da quindici anni a questa parte, non si sia proclamato e non si proclami convinto assertore della prima ipotesi sopra richiamata, salvo poi perseguire la seconda, nella concreta ed alternata prassi del governare. Intendiamoci: il tema della scarsità delle risorse economiche disponibili (la salvaguardia del gettito) è stato ed è un vincolo terribile per qualsiasi governo, passato e presente. E’ per questo che va a priori stabilito, una volta per tutte, se lo sviluppo della previdenza complementare sia o non sia una scelta da qualificare come strategica per il Paese e, quindi, vada o non vada assunta quale priorità.

Se essa è autenticamente collocata tra le priorità, è allora doveroso intervenire quanto prima sulla disciplina fiscale del settore, nei tre segmenti di rilevanza

Avuto riguardo alla defiscalizzazione dei contributi nella fase di accumulo delle risorse, occorre ripristinare il doppio limite di deducibilità, in misura fissa e in misura percentuale (sarebbe equilibrato e ragionevole ipotizzare un limite del 10% del reddito), con facoltà del contribuente di applicare il plafond per lui più favorevole. Nella deteriore delle ipotesi, volendo cioè comunque tenere assai stretti i cordoni della borsa, è per lo meno necessario introdurre meccanismi di indicizzazione automatica del vigente massimale di deducibilità in cifra fissa, fermo da circa un decennio al tetto di dieci milioni (di vecchie lire, ovviamente).

Per quanto concerne la fase di valorizzazione delle risorse accumulate (momento centrale della capitalizzazione), va abolito il prelievo dell’11% sul risultato annuo di gestione,  con spostamento della (folle)  tassazione, per cassa, dei rendimenti via via conseguiti, alla loro tassazione futura, in sede di erogazione delle prestazioni. Siffatto intervento, oltre che collocare la fiscalità della previdenza complementare italiana in linea (oltre che con il “buon senso”) con quanto generalizzatamente praticato in Europa, consentirebbe anche di realizzare una forte semplificazione amministrativa per le forme di previdenza complementare, facendo venir meno il rischio “integrità della banca dati” in capo al singolo partecipante a un piano di previdenza complementare. Tale rischio è tutt’altro da sottovalutare, nell’ambito di rapporti, come quelli di cui trattasi, della durata di decine di anni, soggetti altresì a iterate portabilità da una forma previdenziale ad un’altra.

Circa la fase di percezione delle prestazioni,  l’attuale regime (di applicazione, però, di fatto, ancora futuribile…) appare oggettivamente favorevole (pur suscitando perplessità d’ordine costituzionale e risultando, anche solo per questo, di dubbia capacità di tenuta nel medio/lungo periodo, cioè nei tempi ordinari della previdenza). Ove si ritenesse, comunque, di intervenire oggi, per evitare, saggiamente, potenziali drammi futuri, un’ipotesi equilibrata di riforma potrebbe collocarsi nella conferma dell’applicazione alle prestazioni in capitale di una tassazione separata e per quelle in rendita (da assumersi, fors’anche obbligatoriamente, come prestazioni “fisiologiche” anche per la previdenza complementare, com’è per quella di base) nella loro sottoposizione alle ordinarie aliquote (che ci si augura congruamente ridimensionate) dell’imposta sui redditi personali, su una base imponibile, tuttavia, abbattuta in ragione della durata del piano pensionistico complementare da cui scaturisca  la rendita stessa (ad esempio consentendo la riduzione della base imponibile anche solo di un modesto1% o 1,50% per ogni anno di durata del piano pensionistico, una permanenza in un fondo pensione per quarant’anni consentirebbe di pagar tasse, rispettivamente, sul 60% o sul 40% dell’assegno). La qual cosa, premiando (e, quindi, assai correttamente, incentivando) il risparmio previdenziale di lungo periodo e semplificando, com’è sempre opportuno, la gestione amministrativa delle rendite.

Con l’occasione – e sempre a proposito di semplificazione – andrebbero infine rivisti e unificati al regime più favorevole per il pensionato contribuente, i  diversi regimi impositivi attualmente previsti per le prestazioni di previdenza complementare, specchio della rapida stratificazione nel tempo di differenti discipline legislative.