Prezzolini, vizi privati e pubbliche virtù di un anticonformista

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Prezzolini, vizi privati e pubbliche virtù di un anticonformista

10 Febbraio 2008

Giuseppe Prezzolini è all’incirca sinonimo de “La Voce”. Il periodico più importante del secolo breve,  la rivista che in qualche modo ha posto un po’ tutti i grandi problemi del Belpaese di allora, ma anche quelli di oggi. Vedi, solo a mo’ d’esempio, antipolitica o diffuso sconcerto davanti alla mala politica. “Tutto – scriveva il giovane direttore – cade. Ogni idea svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal parlamento il triste stato si ripercuote nel Paese… Tutto si frantuma. Le grandi idee cadono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri d’unione. Oggi uno è a destra, domani lo ritrovi a sinistra… Lo schifo è enorme. I migliori non hanno più fiducia. I giovani se non sono arrivisti e senza spina dorsale non entrano nei partiti”. Il pezzo in questione si intitola Che fare?, Prezzolini è sui trenta, lo ricorda Gennaro Sangiuliano, autore di una recente biografia Giuseppe Prezzolini. L’anarchico conservatore (appena edita da Mursia, pagine 502, euro 24), e voleva, insieme ai suoi sodali (il meglio della cultura del tempo), rifare l’Italietta. Puntava non a “soluzioni estreme”, ma a un “mutamento interiore delle coscienze”. Ovvero a una sofisticata e risoluta forma di “pedagogia nazionale”.

“La funzione principale dei vociani”, dice Sangiuliano,  era “quella  di rigorosi osservatori, capaci di denunciare i difetti nazionali penetrando con competenza i singoli problemi”. Nascono così inchieste e campagne stampa che scuotono e fanno epoca: dal Mezzogiorno all’università (di conio vociano è il termine “baroni universitari”), dal giornalismo alla questione regionale.  E tutto ciò grazie al lavoro del suo direttore, capace di far squadra, di essere autorevole. Ma “La Voce” entra presto in crisi, l’intervento in guerra farà il resto e fra gli amici della rivista sarà diaspora a tutto campo.

Dopo il 1919 Prezzolini sposta i suoi interressi. Al fervore prebellico è subentrato una sorta di pessimismo radicale. Capita così che faccia fatica a scegliere fra fascisti e antifascisti: “sono malato d’intelligenza. Il desiderio di capire tutto m’impedisce di prendere parte, ed è soltanto che prendendo parte si va avanti”, commenta sconsolato nel suo Diario. Sempre nel dopoguerra, pur in ottimi rapporti, prende le distanze da Piero Gobetti e dal suo giacobinismo militante, dichiarandosi apote, ossia “colui che non la beve”.

Uguale e contrario atteggiamento tiene verso gli amici fascistizzati: è il caso di Ardengo Soffici, a cui replica nel seguente modo: “Io credo alla necessità della libertà di pensiero, di stampa, di riunione… Come vuoi che approvi le bastonature, gli sputi, le uccisioni perché c’è chi non la pensa come me o porta un altro distintivo?”.

Scopritore di Benito Mussolini quando è poco più che un oscuro agitatore massimalista, quando il capo delle camicie nere sbaraglia l’opposizione Prezzolini abbandona l’Italia. Si trasferisce a Parigi e poi, definitivamente, negli Stati Uniti, dove rimane sino ai primi anni Sessanta. Intanto, continua a lavorare alacremente. Docente di italianistica alla newyorkese Columbia, prosegue a collaborare a giornali e riviste.

Ottantenne rientra. Prima Vietri vicino a Salerno, in seguito a Lugano, dove muore centenario nel 1982. Sino all’ultimo il suo rapporto con lo Stivale è critico e sofferto insieme. Nella terza età produce peraltro moltissimo. Opere non di rado superiori a quelle della gioventù. Dedica persino un saggio al  maccherone e ai suoi fulgidi destini. Sino alla fine è presente a se stesso e sino all’ultimo il suo stile resta formidabilmente concreto e asciutto.