Processo ai Khmer Rossi

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Processo ai Khmer Rossi

01 Dicembre 2007

La Norimberga del Sud Est asiatico: così viene chiamato il processo ai Khmer Rossi. Contrariamente al processo ai gerarchi nazisti, non sono i vincitori, ma l’Onu a processare i dirigenti del regime dei Khmer Rossi che regnò incontrastato sulla Cambogia tra il 1975 e il 1979 sotto la guida di Saloth Sar, detto Pol Pot. Ma al pari del processo di Norimberga, ad essere processati sono un governo criminale e i suoi principi fondatori. Ieng Sary, Noun Chea, Kaing Guek Eav detto “Duch”, Ta Mok (deceduto l’anno scorso), hanno ucciso direttamente, o hanno ordinato di uccidere più uomini di quanto un boss della mafia o un serial killer riescano a fare nell’arco della loro vita.

Duch, attualmente sotto processo, ha ucciso personalmente o ha ordinato l’uccisione di 15.000 persone nel carcere di Tuol Sleng, o S-21, dove erano rinchiusi prevalentemente i deviazionisti, i membri del partito sospetti di deviazionismo, oppure i comunisti cambogiani che erano rientrati in patria per appoggiare la rivoluzione e proprio per questo erano sospettati di spionaggio. Il carcere S-21 fu un efficiente strumento di eliminazione fisica del nemico: di tutti i prigionieri che vi furono incarcerati ne sopravvissero solo quattro. Lo scopo del carcere, prima ancora che la soppressione fisica del nemico politico, era l’estorsione della sua confessione, la sua autocritica. Come ricordava Orwell, in 1984, un regime totalitario non ammette di fare vittime: la vittima deve riconoscersi colpevole e fare autocritica prima di essere uccisa. Nella struttura di S-21, non per caso, furono uccisi anche quei torturatori che facevano morire la vittima mentre cercavano di estorcerne un’ammissione di colpevolezza.

Venti anni dopo la fine del regime degli Khmer Rossi, Kaing Guek Eav, detto il compagno Duch, è stato scoperto per caso nel 1999 da un reporter irlandese in un villaggio cambogiano, mentre lavorava da volontario per una Ong americana. Una volta arrestato, le sue prime dichiarazioni sono state: “Se siete qui vuol dire che questa è la volontà di Dio. Ho fatto cose molto brutte nella mia vita. Ora è venuta l’ora delle rappresaglie. Il mio unico errore è di non aver servito Dio. Ho servito gli uomini e il comunismo”.

Ta Mok, morto l’anno scorso, detto “il macellaio”, divenne segretario del Partito Comunista cambogiano per la regione sud-occidentale nel 1968, in piena guerra del Vietnam e quando al potere c’era ancora la monarchia di Sihanouk. Già allora, nella sua guerriglia contro la monarchia, si fece notare per molti massacri indiscriminati di civili. Divenuto capo di stato maggiore dell’esercito, sotto Pol Pot, soppresse varie insurrezioni con metodi brutali, fino all’annientamento fisico totale delle popolazioni di interi villaggi o alla fucilazione di massa di intere unità dell’esercito colpevoli di ammutinamento. Ta Mok, una volta finito il regime, proseguì la sua attività di guerriglia ai confini con la Thailandia. Nel 1998, temendo di essere tradito, consegnò Pol Pot alle autorità cambogiane, poi fu catturato egli stesso. Non si trattava di un bruto: da giovane voleva fare il monaco buddista.

Ieng Sary, uno dei fondatori del movimento dei Khmer Rossi, fu ministro degli esteri del regime. E fu anche al comando di due campi di concentramento/sterminio nella provincia di Kompong Cham. Fu anche l’ideatore delle strategie di epurazione all’interno del Partito: fece rientrare centinaia di comunisti dal loro esilio volontario, per poi tradirli e farli uccidere. Fuggì alla cattura rifugiandosi in Thailandia nel 1979. Grazie ai suoi contatti diplomatici riuscì sempre a cavarsela fino ad ottenere il perdono ufficiale da parte di Sihanouk nel 1996. Condusse una vita molto agiata fino al suo arresto avvenuto solo il 12 novembre scorso. La sua è la vita di un intellettuale, non quella di un serial killer: negli anni ’50, come ricorda il dissidente cambogiano Ong Thong Hoeung, contribuì alla formazione del movimento studentesco (AEK) all’università di Parigi che avrebbe dato vita ai Khmer Rossi. “Lo scopo dell’AEK” – ricorda Ong Thong Hoeung – “è di incoraggiare il desiderio di conoscenza e l’aiuto reciproco. Uno dei suoi ex membri fondatori afferma: ‘Eravamo pieni di ardore e di entusiasmo. E volevamo dimostrare alle autorità francesi di essere persone capaci’”.

Questi tre uomini sono solo alcuni esempi di un regime totalitario che ha eliminato fisicamente un terzo della popolazione cambogiana in poco più di tre anni. Come abbiamo visto, non si tratta né di pazzi, né di bruti. E il loro comportamento non è neppure il prodotto della “disperazione” causata dal precedente regime di Lon Nol, che essi rovesciarono con la forza dopo quasi cinque anni di guerra civile. Né il prodotto della rabbia causata dai bombardamenti americani contro i santuari vietcong in Cambogia tra il 1970 e il 1973, nell’ultima fase della Guerra del Vietnam. I bombardamenti americani furono il motivo del reclutamento di molti contadini nelle file dei Khmer Rossi, ma non la causa principale della violenza del regime. Anche prima della presa del potere, ovunque prendessero il controllo di un territorio, i Khmer Rossi applicavano fedelmente sempre lo stesso piano: svuotamento delle città, trasferimento nelle campagne dell’intera popolazione, divisione delle famiglie, abolizione del denaro, soppressione di qualsiasi forma di educazione, istituzione di un orario di lavoro di 12-13 ore al giorno e imposizione di un rigido codice di comportamento morale in cui era proibito qualsiasi sentimento al di fuori dell’amore per il Partito.

Si trattava di un piano lucido che, dal 1968 al 1975 trasformò il paese in un enorme lager a cielo aperto. Radio Phnom Penh, l’emittente del regime, vantava questi risultati: “I giovani stanno imparando dai lavoratori e dai contadini che sono le fonti di tutto il nostro sapere. Inoltre nessuna scienza è più alta, più degna o più utile di quella che ha a che fare con produzione, agricoltura, industria ed esperimenti e tecniche di produzione. E questo sapere è posseduto soltanto da contadini e lavoratori”. Il tutto era rigorosamente il frutto di una profonda riflessione filosofica sul marxismo, che doveva essere applicato alla lettera. Lo testimonia, tra gli altri, il giornalista francese François Ponchaud, autore del reportage “Cambogia anno 0” del 1977: “Il Khmer pensa in termini accrescitivi o complementari, ma tutto sommato si attiene alle regole di una sua stretta logica interna. In passato, prima di passare all’azione, ogni comitato o consiglio, passava molte ore, a volte giorni, per scrivere statuti, da cui nulla veniva omesso, e per costruire schemi, uno più impraticabile dell’altro. Una semplice idea, percepibile per intuito, era spinta alle sue estreme conseguenze e spesso fino a un punto di assurdità che non rispettava assolutamente la realtà e che non teneva conto delle sue conseguenze pratiche. In effetti erano sufficienti le buone intenzioni e quando lo schema o lo statuto venivano infine stipulati, le difficoltà che avevano portato alla sua formulazione venivano considerate risolte, non si dava loro più importanza. (…) I principi della Rivoluzione Cinese, contenuti negli scritti di Mao, erano anch’essi portati alle loro estreme conseguenze. La pratica marxista si sarebbe incaricata di applicarli. ‘La rivoluzione trae la sua forza dalle masse contadine’. ‘Le guerre si vincono assediando le città dalle campagne’. Portata alle estreme conseguenze, questa teoria porta all’abolizione delle città e di tutto ciò che fa parte della cultura cittadina”.

I Khmer Rossi, di fatto, erano convinti di voler arrivare al comunismo subito, senza passare dalla fase intermedia del socialismo reale. Qualsiasi politica applicata dai Khmer Rossi riflette fedelmente un aspetto del comunismo puro. Nella società comunista lo Stato si estingue: nella Cambogia dei Khmer Rossi, contrariamente ai modelli totalitari classici, non c’era un grande Stato con una grande burocrazia, ma c’era un grande Partito ramificato. Ogni dirigente governava in modo assolutista e autonomo la sua zona, il suo distretto o il suo villaggio. Non c