Prodi, Montezemolo e il partito della decadenza
07 Ottobre 2007
Proponiano di seguito un capitolo tratto dal libro di Lodovico Festa, Il partito della decadenza. Gli anni di Prodi e Montezemolo, recentemente pubblicato da Boroli editore.
E’ stravagante un segretario della Cgil che invece di mantenere un profilo prudente, rivendica i contenuti di una finanziaria assai poco popolare. Per capire questi e altri atteggiamenti sorprendenti di Epifani bisogna riflettere su una storia lunga almeno trenta anni. E’ nella metà degli anni Settanta, durante una crisi verticale della società italiana, con lotte operaie che sfuggono alla guida delle confederazioni, con tentazioni radicali anche in organizzazioni tradizionalmente moderate come la Uil e la Cisl, che la Cgil acquisisce un ruolo centrale nel Paese. Non sempre con successo (Luciano Lama viene aggredito mentre tiene un comizio nell’università alla Sapienza di Roma), il sindacato che fu di Di Vittorio si assume il compito di moderare i conflitti, e intanto espande i suoi confini, entrando massicciamente nella scuola e nel pubblico impiego. Già allora la Cgil gioca un doppio ruolo: di moderatore dei conflitti ma anche di rallentatore delle soluzioni. Per aprire una nuova fase nella vita della società italiana, si dovrà per due volte sfidare in campo aperto la Cgil (ma in realtà nelle due sfide, la guida del sindacato sarà direttamente determinata dalle scelte di Enrico Berlinguer). La prima sfida è della Fiat con la marcia dei quarantamila che vogliono liberare la vita degli stabilimenti innanzi tutto torinesi dalla presenza di violenti e paraterroristi. Poi il governo Craxi per vincere una devastante inflazione abolisce il punto unico di contingenza a metà degli anni Ottanta. Due sconfitte formidabili per il sindacato più rappresentativo. Manca, però, al fondo la determinazione nell’innovazione politica e sindacale e questo impedisce di produrre trasformazioni irreversibili. Si arriva così alla drammatica crisi politica-finanziaria degli anni Novanta quando in una situazione di emergenza si attuano riforme radicali nello stato sociale e si definisce un assetto contrattuale che imbriglia l’inflazione. La drammaticità del momento consente alla Cgil di garantirsi, pur tra mille difficoltà (il segretario generale della Cgil Bruno Trentin firma gli accordi di governo ma poi si dimette: gli subentra Sergio Cofferati), il consenso della base sull’accordo. Poi prima l’evanescente governo Ciampi, quindi l’assediato primo governo Berlusconi, infine il governo degli intrighi guidato da Lamberto Dini, impediscono di andare oltre l’emergenza e di definire compiute basi per una riforma dello stato sociale. Dalla sua la Confindustria guidata da Abete è incapace di incalzare su programmi razionali una Cgil indebolita.
Proprio l’avere accettato (provvidenzialmente) la disciplina dell’emergenza consente ancora una volta all’organizzazione ora guidata da Cofferati di riprendere un ruolo centrale (drammaticamente eccessivo) nella società italiana. E questa scelta ridiventa rapidamente espressione di un blocco conservatore di ogni innovazione radicale. In una prima fase (legge Treu, pensioni) Cofferati effettua qualche apertura pragmatica, secondo il suo stile a lungo concretamente riformista: sono aperture, però, che mentre concedono qualcosa, mantengono la logica del potere di veto del sindacato centrale e la difesa degli operai cinquantenni della grande industria – e degli impiegati del settore pubblico – sopra ogni altro interesse (innanzi tutto quello dei giovani ma anche quello dei lavoratori in nero). Con il governo D’Alema, poi, l’atteggiamento di Cofferati si irrigidisce ulteriormente fino ad arrivare a un cieco massimalismo con il secondo governo Berlusconi. Di nuovo, come all’inizio degli anni Ottanta, la Cgil comincia a subire gravi sconfitte, sia sulle grandi riforme sia nella contrattazione. E intanto una parte consistente del suo gruppo dirigente di tradizione riformista assume posizioni politiche sempre più estremistiche: si va da un pacifismo ultaradicale all’appoggio che la grande maggioranza dei ds della Cgil dà alla mozione di sinistra nel congresso del partito del 2003 (operazione che vede insieme Fabio Mussi, Sergio Cofferati e Walter Veltroni, quest’ultimo appena appena defilato invocando il suo ruolo da sindaco che oggi non ostacola la sua corsa alla leadership del Partito democratico ma che allora gli “impediva” di schierarsi apertamente nel congresso del partito). Il flop di Cofferati in quel congresso dei Ds, costituì un’altra sberla a un gruppo dirigente cigiellino ormai allo sbando.
Per molti versi si era arrivati a una fase in cui una benedetta trasformazione nel sistema delle relazioni sindacali in senso modernizzante tornava di attualità. Le posizioni della Cisl sulla centralità della contrattazione aziendale stavano per prevalere. Quando l’arrivo di Montezemolo alla guida di viale Astronomia, la sua apertura senza cautele a Epifani e gli altri atteggiamenti consimili, descritti in varie parti di questo libro, interruppero questo processo. Un processo che, se e quando ripartirà, sconterà i guasti di questi anni più recenti. Ma prima ancora dell’arrivo di Montezemolo, qualche considerazione va svolta sull’elezione di Epifani. In Cgil sotto Cofferati alla fine gli “uomini forti” sono due: Giorgio Casadio e Paolo Nerozzi, tutti e due ex Pci, quadri sindacali cresciuti nelle regioni rosse, uno (Casadio) più riformista, l’altro (Nerozzi) più di sinistra. Cofferati non sceglie nessuno dei due, punta sull’ex socialista Epifani, meno autorevole nell’organizzazione: l’idea del segretario uscente è di favorire gli uomini più legati a lui (come Carlo Grezzi o Achille Passoni) che però litigheranno tra loro e finiranno per perdere peso politico. Nasce così un gruppo dirigente molto debole, poco autorevole verso le categorie (le cui linee contrattuali tenderanno a divaricarsi), che ha un’unica carta: il riconoscimento dall’esterno per potere contare all’interno. Di qui il reciproco sostenersi con Montezemolo (assai simile a quello di due zoppi che camminano affiancati perché uno sorregge l’altro) e l’appiattirsi su Prodi. Naturalmente situazioni di questo tipo sono assolutamente precarie: e da una parte man mano che Montezemolo viene contestato dalla sua stessa base, i rapporti con Confindustria diventano più difficili. Dall’altra Prodi ha i suoi guai e ha bisogno di appoggi solidi su cui contare e da spendere subito in una situazione sempre più ingovernabile, per cui il lucido e concreto Raffaele Bonanni della Cisl acquisirà via via spazio, fino a diventare il protagonista dell’accordo del luglio 2007.
La situazione in Cgil intanto diventa sempre più allarmante: parte rilevante dei quadri passa al congresso dei Ds dell’aprile 2007 con Fabio Mussi: da Paolo Nerozzi e Carla Cantone della segreteria, a Betty Leone segretaria dei potenti pensionati, a Carlo Podda del pubblico impiego, a Franco Ciriaco della Flai Cgil (il settore agroalimentare) e altri ancora. Per non parlare della Fiom dove al segretario Gianni Rinaldini (già a metà tra Mussi e Rifondazione) si aggiunge l’autorevole esponente della segreteria Giorgio Cremaschi, che si colloca alla sinistra di Rifondazione.
Il rischio di balcanizzazione, come ricorda Rinaldini dopo l’accordo su welfare e pensioni, è altissimo. La guida del sindacato appare sempre più da ultima spiaggia: del tipo “seguitemi o è il caos”. Gli atteggiamenti sono assolutamente schizofrenici: “Ho firmato l’accordo sullo stato sociale ma è una porcheriola”. “Bisogna modficare l’accordo ma chiedo alla Cgli di sostenerne l’approvazione nella consultazione”. Le cose che Epifani dice nel luglio del 2007 danno un senso di sbandamento che appare quasi senza rimedio. La Cgil resta una grande organizzazione, non solo con la vocazione a difendere sacrosanti valori solidaristici diffusi ben salda nel suo immenso corpaccione ma anche con una burocrazia allenata ed esperta, con un vivo istinto a proteggere a tutti i costi il proprio vastissimo potere conservatore. Ma la situazione è ormai arrivata al capolinea: il gruppo dirigente ha bisogno di un asse su cui costruire una linea sindacale e politica: una linea che forse non potrà subito essere molto chiara ma che dovrà correggere gli ondeggiamenti in atto Questi lasciati a se stessi condurrebbero la confederazione rapidamente a una crisi.
Userò definizioni molto schematiche per individuare i possibili sbocchi. Oggi l’asse di governo della Cgil è determinato da un convergere dei riformisti (un po’ defilati quelli più coerenti) con i semi-duri guidati da Nerozzi, che hanno il loro perno nel pubblico impiego. Questo asse poggia sull’evanescenza di Epifani che non spaventa nessuna delle due citate aree cigielline ma non offre neanche una leadership in grado di affrontare i problemi all’ordine del giorno. Potrebbe realizzarsi un scambio di contenuti in cambio di potere: una linea più riformista sulla contrattazione aziendale (lasciando perdere l’idea di introdurre troppe innovazioni nei contratti del pubblico impiego), sulla flessibilità, in cambio di più potere a Nerozzi (che dalla sua vagheggia un socialismo di sinistra tra Angius e Mussi). Questa linea diverrebbe praticabile probabilmente se si definissero anche le condizioni per un rientro di Mussi nel processo di formazione del partito democratico, cosa che sotto la segreteria Veltroni non è impossibile. Un’altra soluzione (soprattutto se si procederà verso la cosiddetta “cosa rossa”, cioè la convergenza tra Mussi e Bertinotti) sarebbe un’alleanza tra i semiduri di Nerozzi con i duri di Rinaldini, con l’esclusione dei durissimi di Cremaschi e un ridimensionamento ulteriore dei riformisti (e tanta guerriglia nelle categorie). E’ evidente comunque che ci si trova di fronte a una situazione particolarmente ingarbugliata, frutto innanzi tutto di una lunga trascuratezza dei diessini dentro e fuori la Cgil, incapaci durante tutto questo ultimo decennio di discutere seriamente di politiche per il lavoro, di affrontare la questione di un sindacato veramente riformista e moderno. Si dirà che c’è autonomia tra partito e sindacato, e che certe discussioni non sono concettualmente ammissibili per organizzazioni politiche che hanno superato la pratica del collateralismo. Ma queste sono considerazioni astratte. L’autonomia funzionale tra organizzazione politica e sindacale non deve impedire di cogliere tutti gli intrecci che vi sono tra scelte ideali politiche e militanza sindacale. Altrimenti si finisce come la Fiom dove, come ha recentemente ricordato Cremaschi, i nuovi quadri sindacali si formano culturalmente e idealmente nei centri sociali. In questa situazione allo sbando, qualunque saranno gli esiti politico-sindacali della Cgil, per un certo periodo le relazioni industriali vivranno una fase di difficoltà. Difficoltà che saranno ancora più consistenti se la Confindustria non correggerà la linea di appeasement senza principi tenuta per tutta questa fase più recente.