“Proximity talks”, la montagna Obama ha partorito un topolino

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“Proximity talks”, la montagna Obama ha partorito un topolino

10 Maggio 2010

Gerusalemme. La montagna Obama ha partorito il topolino, un simulacro di processo di pace chiamato con un eufemismo “proximity talk”. Basta sfogliare la stampa internazionale, all’indomani del calcio d’avvio dato da Gorge Mitchell ai negoziati indiretti tra israeliani e palestinesi, per rendersene conto. La notizia nascosta nelle pagine interne. I “passi positivi” che le parti avrebbero compiuto, secondo le parole dell’inviato mediorientale del Presidente Usa – ovvero il congelamento delle costruzioni a Gerusalemme est, gli israeliani; la fine dell’incitamento, i palestinesi – accolti dagli osservatori con una dose massiccia di salubre scetticismo.

La verità è che israeliani e palestinesi hanno accettato la farsa dei negoziati indiretti come il male minore. Il premier Netanyahu sa che lo status quo non è un mondo ottimale, tuttavia gli appare ancora come il migliore di tutti gli altri possibili. Non ha mostrato finora la stoffa del leader, unanimemente riconosciuta ad Ariel Sharon. Se il secondo credeva che nei campi di battaglia come nell’arena politica la miglior difesa è l’attacco, il primo è convinto che date le circostanze l’esito migliore della partita è lo stallo. Così, mentre Arik sparigliò le carte e regalando a Bush il ritiro da Gaza, Bibi preferisce affrontare le ire di Obama piuttosto che quelle dei coloni.

Se Netayahu deve ancora mostrare la stoffa del leader, Mahmoud Abbas, alias Abu Mazen, ha dimostrato di non averla affatto. L’ultimo segnale di debolezza è rappresentato dalla richiesta avanzata alla Lega Araba di dare il disco verde ai “proximity talk”. Mai il predecessore, Yasser Arafat, avrebbe rinunciato alle sue prerogative di rappresentante del popolo palestinese. Per giunta, Abu Mazen, che dal 2007, dal colpo di stato militare di Hamas nella striscia di Gaza, è di fatto un Presidente dimezzato, deve ora  guardarsi le spalle anche da Salam Fayad. Il primo ministro non solo detiene saldamente i cordoni della borsa, grazie alla fiducia che la sua gestione trasparente ha instillato nei Paesi donatori.  Gode anche di una crescente popolarità, frutto di buon governo: crescita economica, aumento della sicurezza, contato diretto con la gente. E propugna  una strategia diversa da quella del Presidente, la costruzione dal basso delle istituzioni del futuro Stato, come alternativa ad un processo di pace inconcludente.

La data da appuntare sull’agenda diplomatica è il 26 settembre. Scadrà quel giorno il periodo di  10 mesi di congelamento delle nuove costruzioni negli insediamenti ebraici, deciso dal governo israeliano. Se non avverranno miracoli, sempre più rari nella terra dei profeti, quel giorno il fragile castello di sabbia costruito dall’Amministrazione Obama si sgretolerà. E la futilità dei “proximity talk” verrà alla luce. I palestinesi li hanno accettati obtorto collo, con la speranza di poter scaricare su Israele la responsabilità del fallimento annunciato. Netanyahu punta selle elezioni Usa di mid term, con la prevedibile debacle democratica,  per sgusciare dall’angolo in cui l’ha messo Obama. Per il capo della Casa Bianca sarà il momento della verità della sua politica mediorientale.

La minaccia iraniana, e la difficoltà americana nel contenerla, stanno indebolendo il cosiddetto fronte dei moderati nella regione. Il verbo radicale irradiato da Teheran ha già sedotto la Turchia, ha paralizzato l’Arabia Saudita, ha gettato nel panico la Giordania, fa oscillare l’Egitto. In questa situazione, Gerusalemme più che al dossier palestinese, guarda con crescente interesse e apprensione a quello siriano. E’ a Damasco, non a Ramallah, che oscilla il pendolo tra pace e guerra.  Secondo l’estabishment di sicurezza israeliano, staccare la Siria dall’"asse del male" è un obiettivo di rilevanza strategica che potrebbe valere il prezzo da pagare le Alture del Golan. Il prezzo dello stallo prolungato, su questo tute le analisi sono concordi, è una nuova guerra. Certamente più vasta delle due che l’anno preceduta.