Può il giudizio morale di Repubblica contare più di quello politico degli elettori?

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Può il giudizio morale di Repubblica contare più di quello politico degli elettori?

26 Giugno 2009

Ciò che rende questo momento storico interessante per un politologo è la constatazione che con una sofisticata campagna giornalistica si può riuscire a convincere l’opinione pubblica che legge i giornali e che ha un rapporto di amore e di odio con la politica che sia possibile risolvere il problema politico tramite mezzi etici. Nonostante il fatto che l’idea circoli da sempre e che quando si è tentato di realizzarla i risultati non sono mai stati incoraggianti, quella parte dell’opinione pubblica che si sente intellettualmente superiore alla massa elettorale che, ad esempio, trascorre il proprio tempo a seguire il Grande Fratello, sembra credere fermamente che le performances della politica siano in un rapporto di connessione diretta con la moralità dei politici. E siccome l’obiettivo di rendere tutti gli uomini ugualmente virtuosi non sembra meno ambizioso di quello di convincere le malattie a lasciare in pace gli esseri umani, si avverte una certa difficoltà a capire se sia più ingenuo chi pende dalle rivelazioni di “Repubblica” o chi dalle rivelazioni dei giornali che si occupano delle vicende dei protagonisti del Grande Fratello.

Un liberale certamente vorrebbe meno politica, ma la tesi che se ne avrebbe di meno se elettori ed eletti divenissero tutti ugualmente virtuosi lo lascia, come dire, un po’ perplesso e diffidente nei confronti di coloro che pensano di essere in grado di risolvere un problema che i più grandi filosofi politici hanno affrontato senza però trovarne la soluzione. Detto diversamente, in democrazia la realizzazione di obiettivi morali implica non meno ma più politica e, come pare affermasse un esperto di politica come Bismarck (che non nutriva soverchi entusiasmi per la pratica della democrazia parlamentare) “se vi piacciono la politica e i salsicciotti non chiedetevi come vengono fatti”.

Ma veniamo al dunque.

Quel che sorprende non è la quantità del fango maleodorante che da mesi viene scaraventata su Berlusconi, ma l’opacità e la scarsa qualità del suo modo di difendersi. Una difesa certamente in punta di diritto che sembra tuttavia ignorare che non è in gioco soltanto il suo futuro politico e personale, ma la stessa esistenza del rapporto tra sovranità popolare e funzione di governo.

Cerchiamo di essere meno sintetici. I fatti che vengono attribuiti a Berlusconi, se fossero giudiziariamente provati (ciò che implica anche una valutazione del modo in cui se ne è avuta notizia) sono sufficienti per chiederne le dimissioni da parte di una lobby giornalistica? Ammesso che sia un reato, la presunta “indegnità morale” decretata da un gruppo di pressione (non dal parlamento e neanche da una definitiva sentenza giudiziaria) annulla quel mandato politico a governare che è stato riconfermato nelle ultime settimane?

Di fatto, sotto l’etichetta di una battaglia di “moralizzazione politica” si sta combattendo un’autentica ed aspra battaglia politica che però ha attori in parte sconosciuti e in parte diversi da quelli tradizionali. Sembra di assistere ad una tenzone a due: da una parte un giornale e dall’altra un leader politico dalla vita privata stravagante ma non illegale. Una vicenda in cui il principale partito di opposizione ed il parlamento stanno giocando il ruolo di comprimari, ed in cui l’opinione pubblica progressivamente -ed è il dato più grave della situazione- si sta convincendo che le ragioni del moralismo politico debbano prevalere su quelle della politica.

Ma poiché i moralizzatori della politica non sono le anime candide che si professano, resta il legittimo sospetto che tutto questo trambusto venga fatto per avere come risultato una soluzione politica della questione morale. Dunque un nuovo leader, se non una nuova e diversa maggioranza. Ed infatti, che senso avrebbe sostituire Berlusconi con un altro capo del governo che, al momento, non potrebbe che essere indicato da lui?

Di conseguenza non resta che pensare che le accuse a Berlusconi siano strumentali e volte non ad avere una maggiore moralità politica, ma a stabilire il principio che la legittimità è appannaggio non dell’elettorato ma di quanti si proclamano difensori della moralità politica. In altre parole, poiché si sa da sempre che quello della politica non è il regno delle anime candide e che una persona di specchiata moralità può essere un pessimo politico, chi sostiene che sia la morale a dare legittimità alla politica dovrebbe anche elaborare un sistema politico in cui non esista forma alcuna di coercizione (per fare un esempio un sistema fondato su una tassazione autonoma e volontaria). Dovrebbe immaginare un nuovo ruolo e nuovi limiti alla sovranità democratica, ed ammettere che un eventuale contrasto tra morale ed elettorato dovrebbe essere risolto dai detentori della moralità pubblica e privata. Inoltre, ed il particolare non è affatto secondario, resterebbe pur sempre da stabilire se alla carica di ‘moralizzatore politico’ si acceda per elezione, concorso, o auto-investitura.

Non voglio però dire che se si inizia così si può finire come nell’Iran di questi giorni, ma che se ci si trova di fronte a tali dilemmi una responsabilità, certamente indiretta, ce l’ha anche Berlusconi.

Egli infatti sapeva di non essere gradito ad una parte consistente della classe dirigente italiana ma, invece di dedicarsi a crearne velocemente una nuova ed autorevole (operazione non semplice e comunque costosa in termini di tempo e di denaro), ha pensato di aggirare l’ostacolo stabilendo una rapporto diretto e carismatico con l’elettorato e con l’opinione pubblica. Vale a dire non prestando attenzione a quel che la scienza politica sa dai tempi di Platone e di Pericle (come dire da quando esiste): che l’opinione pubblica è talmente ed irragionevolmente mutevole che deve essere accudita sia da produttori di miti, sia da produttori di cultura politica. Berlusconi ha proposto il mito di se stesso in un rapporto diretto con l’opinione pubblica, ma non ha fatto molto per far sì che in quello che ai giorni nostri si chiama ‘mercato delle idee’ circolassero e si affermassero idee complementari al suo progetto politico.

Di conseguenza, alla prova dei fatti, quando l’attacco è venuto dall’accorta manipolazione dell’opinione pubblica (laica e cattolica), si è trovato senza armi per difendersi. O con armi inadeguate, come quelle del diritto.

Ora si lamenta perché deve difendersi da solo, ma in tutti questi anni ha passato più tempo con Apicella che con quanti gli avrebbero detto e ripetuto che le gramsciane casematte della società civile vanno conquistate, modificate, attrezzate e difese. Berlusconi pensava di poter aggirare il problema rivolgendosi, tramite i media, direttamente al popolo. Ed ora che inizia ad averne timore, non sa che fare e non può certo mettere in pratica qualche strategia elaborata con Apicella. Non avendo investito massicciamente in cultura politica si ritrova così a combattere una battaglia asimmetrica senza strumenti adeguati alla bisogna. In altre parole, non è riuscito ad attirare nel suo progetto politico un numero sufficientemente ampio di persone in grado, se necessario, di parlare all’opinione pubblica e di spiegarle la realtà della posta in gioco.

A dire il vero qualcosa si è fatto, ma poco e in certi casi anche male. Le fondazioni e le istituzioni culturali non servono soltanto a produrre idee, ma anche ad aggregare consenso e ad immagazzinarlo per usarlo quando opportuno e necessario.

In breve, occorre prendere atto del fatto che la battaglia politica è fatta non soltanto di scontri elettorali (e qui Berlusconi va alla grande), ma anche, tra una campagna elettorale e l’altra, di una guerriglia culturale, che si combatte sui media, volta a consolidare i risultati dell’azione di governo e a porre le premesse per quelle vittorie elettorali che danno la legittimità a governare. Questo tipo di battaglia Berlusconi l’ha trascurato pensando che la sua forza carismatica fosse sufficiente a vincere le elezioni. Qui non si tratta di fare un discorso ugualmente moralistico incentrato sulle virtù redentrici della cultura, ma di dire che un progetto politico che volontariamente trascura la dimensione culturale è un progetto che si mutila di qualcosa. Per immaginare una politica che faccia a meno della cultura bisogna elaborare una filosofia ed una scienza della politica. Ma questo è cultura!

Infatti, bisogna rendersi conto del fatto che come l’uso dei media può favorire il consumo dei dentifrici, così può favorire l’introduzione nel sistema delle credenze sociali di idee che possano scardinare, in nome di qualsiasi altro mito, la logica democratica che chi vince governa. Tant’è che oggi constatiamo amaramente che il tentativo di sostituire la democrazia rappresentativa con la moralità potrebbe riuscire proprio perché si tratta di un’operazione culturale che è stata preparata a lungo e con una certa accuratezza ed accortezza. In definitiva, che Berlusconi non dispone di un vaccino che possa arrestare il diffondersi di quel moralismo politico che porta in sé germi letali per la democrazia.