Putin toglie ai russi il Big Mac, ora restano solo autoritarismo e repressione
16 Maggio 2022
di Tiziano Rugi
Le immagini dei trentamila russi in coda per mangiare nel primo McDonald’s inaugurato in Unione sovietica il 31 gennaio del 1990 descrivono perfettamente il balzo indietro nella storia nazionale fatto fare da Vladimir Putin con l’invasione dell’Ucraina. Trentadue anni dopo, la catena di Big Mac simbolo della globalizzazione, infatti, ha annunciato la vendita degli 850 ristoranti fast food in Russia. La scelta costerà a McDonald’s più di un miliardo di dollari: il mercato russo costituiva il 9% delle entrate dell’azienda statunitense. Oltre agli stipendi da pagare finché non avverrà il passaggio a un nuovo compratore.
Non solo Big Mac: la Russia si allontana, giorno dopo giorno, dall’Occidente. Politicamente e nello stile di vita. Coca-Cola, Pepsi, Starbucks, Apple, Disney, H&M, Ikea, Netflix, PlayStation, Spotify e TikTok sono altrettanti colossi che hanno sospeso temporaneamente i servizi o sono usciti in maniera definitiva dal mercato russo. Senza contare le sanzioni sui movimenti di persone e di capitali e al sistema bancario. Il rischio dell’isolamento e di una “sovietizzazione” dell’economia, con aziende vicine al regime di Putin costrette a farsi carico del vuoto lasciato dalle multinazionali occidentali è reale.
In assenza di un cambio di rotta nella politica di Mosca, l’incertezza del futuro e la minaccia di contro-sanzioni fino alla nazionalizzazione spingeranno le aziende che ancora non lo hanno fatto a fuggire in tempi brevi. Da un lato il senso di contrapposizione con l’Occidente rafforzerà le convinzioni nazionaliste di molti russi. Dall’altro è la percezione tangibile, semplicemente camminando per le vie di Mosca, che qualcosa di impossibile da minimizzare sta accadendo, nonostante la disinformazione del regime. Per anni il potere di Putin si è fondato sul patto faustiano “minor libertà politica in cambio di maggior benessere”. Adesso, però, tutto può essere di nuovo messo in discussione.