Putin ha sempre saputo come si governa la Russia: col pugno di ferro

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Putin ha sempre saputo come si governa la Russia: col pugno di ferro

10 Agosto 2010

Putin è sotto attacco? A dieci anni dalla sua ascesa al potere, l’artefice della Russia post-sovietica rischia di finire sotto scacco. Le minacce provengono da due direzioni opposte: il moltiplicarsi dei focolai di dissenso popolare contro Putin e la crescente tensione nel rapporto con Medvedev. Congelate le divergenze col presidente, il premier reagisce rinforzando i meccanismi di controllo per spegnere il dissenso pubblico. E’ questa la “exit strategy” di Putin per riavere in pugno la Russia in vista delle elezioni presidenziali del 2012? 

“Putin must go”: è il grido lanciato lo scorso 10 marzo con una petizione popolare dagli ultimi residui dell’opposizione russa per chiedere le dimissioni del primo ministro. Oltre trenta intellettuali, politici, giornalisti e artisti hanno compilato quella che è un’enciclopedia completa dell’anti-putinismo. Dalla sua presentazione ad oggi, “Putin must go” ha raccolto oltre cinquantamila firme in differenti città russe. Decine di cittadini hanno sfidato gli Omon, le squadre speciali antisommossa del ministero degli interni, perché in Russia il diritto d’assemblea è considerato quasi un atto di terrorismo. Eppure questa iniziativa è appena filtrata sui media occidentali. Infatti non era facile individuarla. Il 10 marzo, nello stesso giorno della pubblicazione, il sito del giornale che per primo aveva pubblicato l’appello è stato oscurato da un hacker. Inoltre alcuni giornalisti che hanno pubblicato altrove l’appello, hanno anche ricevuto minacce di morte. Non è difficile capire perché neanche le televisioni abbiano dato risalto a questa iniziativa. I due principali canali televisivi russi, Canale Uno e Russia sono controllati da un conglomerato statale che gestisce anche 5 televisioni nazionali, 2 network internazionali, 5 stazioni radio, oltre 80 canali locali e l’agenzia di stampa Ria-Novosti. Il terzo canale, Ntv, nato come televisione libera dopo il crollo dell’Urss, ora appartiene a Gazprom. Il vero potere non ama le luci della ribalta. Conoscere Putin significa venire a conoscenza di quanto non viene normalmente conosciuto. E’ la Russia.

Un’altra iniziativa anti-Putin, gemellata con la petizione “Putin must go”, è “Putin. I risultati. 10 anni”, una pubblicazione firmata da Boris Nemtsov e Vladimir Milov, due delle menti più fresche di “Solidarnost”, scheggia liberale nata nel dicembre 2008 dall’ennesima secessione dalle sparute e litigiose forze dell’opposizione. La molla è sempre la stessa: il Cremlino indossa la maschera della conciliazione e dell’interesse nazionale per cooptare qualche membro dell’opposizione particolarmente sensibile alle sirene del potere. Così gli altri, per rigetto o per invidia, s’irrigidiscono nella loro purezza ideologica contro il Cremlino. “Putin. I risultati. 10 anni” è uscito lo scorso 14 giugno in un milione di copie. Ma quattro giorni dopo ne era già stata proibita qualunque stampa e le copie in circolazione venivano spesso sequestrate con l’accusa di incitare all’estremismo. I tribunali hanno dichiarato infondata quest’accusa, ma le copie sequestrate sono state in larghissima parte trattenute. Perché questo sabotaggio così accanito se Nemtsov e l’opposizione sono politicamente innocui? Cosa c’era scritto di così pericoloso? La realtà. Una corruzione dalle proporzioni colossali che ha affossato la Russia al livello dei più retrogradi stati africani; mezzo milione di morti ogni anno per il dilagante alcolismo e la pessima qualità dei servizi sanitari; la sconfitta nel Caucaso russo, dove Mosca ogni anno pompa sei miliardi di dollari che vengono polverizzati dalla corruzione, mentre gli attentati, in dieci anni, si sono moltiplicati di sei volte. Infine il prosciugamento dei fondi pensionistici, mentre il governo alza le tasse ed innalza l’età del pensionamento. Ecco perché è difficile trovare in giro una copia di questa pubblicazione. 

Nella biografia politica di Putin gli intrecci sono una costante, anche se questi intrecci spesso uniscono gli opposti. Quando il declino fisico e politico di Eltsin era diventato inevitabile, era proprio Nemtsov il più accreditato delfino per la successione. Dal 1997 al 1998 fu primo vice premier e riscosse notevole popolarità con grandi riforme nel settore dell’energia. Ma poi la crisi economica del 1998 travolse i riformisti filo-occidentali. L’uscita di Nemtsov dal governo corrispose all’ascesa di Putin, che nel 1999 divenne primo ministro. Nemtsov finì sempre più emarginato da un potere sempre più accentrato su Putin. Dieci anni più tardi Nemtsov denuncia al popolo russo le presunte responsabilità di un Putin che tuttavia non è più nella sua consueta posizione di forza. Infatti accadono episodi che prima erano soltanto immaginabili con molta fantasia. Ad una cena di gala a Mosca per la raccolta di fondi a favore dei bambini col cancro, alla fine dello scorso maggio, Putin fu platealmente contestato da Yuri Shevchuk, il Bruce Springsteen della Russia post-Urss. Shevchuk osò addirittura chiedere al premier se si sentiva davvero onesto quando prometteva libertà e democrazia mentre la corruzione imperversa e la polizia spadroneggia incutendo timore anziché rispetto. Stranamente questo attacco frontale non fu censurato e ancora oggi è considerato un evento eccezionale.   

Oltre ai corsi e ricorsi con Nemtsov, la vita politica di Putin s’intreccia, in modo molto più determinante, con quella del presidente Medvedev. Il rapporto tra le due massime cariche dello stato oscilla tra la sinergia e un improvviso antagonismo. L’elezione di Medvedev aveva permesso a Putin di restare al potere ritornando a fare il primo ministro. Ma il nuovo presidente ha mostrato sempre più autonomia nelle politiche per lui più sensibili, dalla corruzione alla modernizzazione. Nel settembre 2009, a poco più di un anno dall’elezione, Medvedev si disse pronto a correre per un secondo mandato nel 2012. Anche Putin ebbe la stessa idea. Ma nessuno, dentro e fuori la Russia, si aspettava di trovare al Cremlino un presidente pronto a sfidare il padre fondatore della Russia – oltre che il suo mentore. Come nel caso di Nemtsov, estromesso all’ultimo momento e senza spiegazioni plausibili ad eccezione dei patti occulti tra la famiglia di Eltsin e le oligarchie ex-Kgb, così anche Medvedev è un nome spuntato quasi dal nulla. Gli analisti puntavano sul suo opposto, Sergei Ivanov, l’intransigente ministro della difesa dal 2001 al 2007 e poi primo vice primo ministro, Ivanov che era stato il vice di Putin quando quest’ultimo era direttore dell’Fsb. Nonostante tale pedigree, Putin scelse il timido Medvedev dalle note simpatie liberaldemocratiche. E’ meglio mettere al potere una colomba che un falco. Ma la colomba Medvedev ha anche un cervello politico molto pericoloso e da economista e tecnocrate è un individualista che non conosce le logiche di appartenenza della politica. 

Comunque i dissidi tra Putin e Medvedev furono congelati dall’emergenza della gravissima crisi economica che ha colpito la Russia nell’inverno 2009-2010. Ma fu la stessa economia a rendere questa tregua di breve durata. La strategia di Putin voleva incrementare le specificità dell’economia russa, mentre Medvedev si slanciava verso ipotesi più occidentali. La massima divergenza si registrò quando il presidente decise di perseguire, ancora una volta, la strada della modernizzazione, per fondare a Mosca un villaggio tecnologico ispirato alla Silicon Valley. Senza bisogno di spulciare nei pamphlet anti-Putin, in Russia la percentuale di imprenditori sull’intera popolazione è tra le più basse dei paesi sviluppati. Mentre Medvedev era in America a studiare come importare l’hi-tech in Russia, raccogliendo milioni di dollari di fondi dalle più grandi aziende, Putin aveva già dichiarato che il suo paese non aveva bisogno di aiuti stranieri, perché i russi “non sono invalidi e non hanno capacità mentali inferiori”. Putin non si smuove dall’industria pesante per l’esportazione delle risorse energetiche. Pensa ancora ad una Opec del gas, lavora con successo per realizzare il doppio gasdotto North e South Stream. Chiaro: l’energia è potere, equazione fondamentale della “putinomics”. Ma quest’energia non ha creato benessere sociale perché il governo non attua politiche economiche redistributive. I colossali profitti di Gazprom restano a Gazprom per fare altri profitti. L’industria russa dell’energia è la macchina da guerra di Putin.    

Alla fine di giugno, nel giorno in cui Obama offriva a Medvedev un succulento hamburger durante la visita negli Usa, esplodeva la crisi delle spie russe che si erano mimetizzate da buoni cittadini americani. Il mondo tenne il fiato sospeso per la paura di una nuova guerra fredda. Invece Obama e Medvedev non si scomposero e procedettero ad un pragmatico scambio di spie. L’attenzione pressante dei media internazionali è già svanita, i due capi di stato sono tornati alle loro faccende domestiche – ma solo uno ha esternato toni furenti contro l’arresto delle spie russe: Putin. Ma lo sfogo del primo ministro era molto di più che un esercizio di retorica sovietica. Era il sintomo della posizione marginale in cui sia Obama che Medvedev erano riusciti a relegarlo, impostando relazioni bilaterali sulla sinergia e non più sulla contrapposizione. Il tandem funzionava – ma non era Putin a pedalare insieme a Medvedev.

Per risolvere questo momento di difficoltà Putin sta ricorrendo al solito, vecchio piano: stringere il controllo interno. Per affrontare in posizione di vantaggio la possibile sfida interna con Medvedev alle presidenziali del 2012, il primo ministro ha un’unica, grande risorsa: una rocciosa maggioranza parlamentare. Al momento di lasciare il posto a Medvedev, Putin è stato nominato leader di Russia Unita. Quindi il primo ministro è anche il capo del partito che ha la maggioranza assoluta in parlamento: 315 su 450 seggi – un perfetto modello anglosassone in salsa russa. All’inizio di luglio la Duma ha approvato una riforma dell’Fsb, il servizio di sicurezza interno. Il teorema fondamentale della nuova riforma è estendere i poteri dell’Fsb su tutti coloro che si trovano nelle oggettive condizioni per commettere un reato. In questi casi i soggetti così individuati dovranno presentarsi a “colloqui precauzionali” con l’Fsb, altrimenti saranno sanzionati con multe salate o addirittura con il carcere. Allo stesso tempo la Duma ha approvato in prima lettura una riforma particolarmente restrittiva dell’articolo 31 della costituzione – il diritto d’assemblea pubblica. Il principio è che una qualunque sanzione amministrativa, anche l’essere sprovvisto di biglietto in metropolitana, comporta l’impedimento giuridico di organizzare una manifestazione pubblica. I movimenti per i diritti civili reagiscono organizzando sparute manifestazioni pubbliche in difesa dell’articolo 31. Almeno ci provano, perché le autorità spesso negano l’autorizzazione o procedono ad arresti a tappeto.

Solo un capillare controllo del dissenso potrà salvare Putin dalla sua depressione politica? Putin va oltre le classiche distinzioni a cui siamo abituati noi occidentali – presidente, primo ministro, segretario di partito, ma neppure tiranno o despota. Putin che segue uno spettacolo di lotta con l’attore-lottatore Jean Claude Van Damme, Putin con la tigre, Putin con l’orso bianco o il serpente. Tutti stratagemmi banali per associare Putin alla forza, alla potenza, alla sicurezza. Ma la forza non tollera il dissenso pubblico. Diventa un atto d’accusa che trasforma quella forza in una debolezza. Quando Putin era agli esordi del potere politico, fu pubblicato un libro che divenne presto la migliore interpretazione del nuovo sistema di potere. Il titolo è “Un tedesco al Cremlino” (“Wladimir Putin: Der "Deutsche" im Kremlin”, Ed. Universitas, 2000), di Alexander Rahr. La sua tesi, che comparava Putin ai grandi governanti della Russia, da Pietro il Grande a Nicola I fino a Gorbachev ed Eltsin, era l’istintiva condanna di Putin per ogni manifestazione pubblica di protesta.

Proprio come Nicola I che fece sempre affidamento sulla giustizia dei tribunali locali o sui “cahiers de doleances” rispetto alle rivolte e ai gesti plateali, così Putin aborrisce la contestazione diretta. Un piccolo esempio è perfetto: a giugno il fabbro Nikolay Shutrov aveva saputo dal sito web di Putin che il premier avrebbe visitato la fabbrica a Yaroslav doveva lavorava. Così decise di invitare Putin a visitare la sua piccola officina. Nel corso della visita ai grandi e moderni capannoni, Putin scorse nella folla Shutrov, che fu invitato a salire sull’auto del premier per raggiungere il suo luogo di lavoro. Giunti sul luogo, Putin e il suo seguito si ritrovarono in una catapecchia sporca e trasandata. Era l’officina di Shutrov, che si lamentava con Putin per non aver ricevuto un piccolo posto nei nuovi impianti. Così Putin dette immediatamente ordine al direttore dell’azienda di rimodernare anche l’officina del fabbro Shutrov, che ringraziò calorosamente. Sei mesi dopo, invece di una nuova officina, Shutrov ricevette la lettera di licenziamento.

Il sistema dev’essere in grado di auto-regolarsi – ecco il teorema del potere secondo Putin. Se non lo fosse, la protesta di piazza non è la soluzione, perché aumenta il tasso di conflitto verso un potere che non sa e non può confrontarsi. Altrimenti sarebbe una democrazia. Ma se fosse l’architetto di questo sistema ad averne perso il controllo? E’ un’incognita ancora più complicata, perché in questo caso l’architetto Putin coincide col suo sistema Russia. Simul stabunt, simul cadent, come dicevano i latini, che se ne intendevano di potere. Putin non ha bisogno di traduzione per capirlo.