Qual è stata la reazione di Obama al lancio nordcoreano? Altre parole

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Qual è stata la reazione di Obama al lancio nordcoreano? Altre parole

06 Aprile 2009

Prima del lancio, domenica 5 aprile, di un missile balistico Tepodong-2, il presidente Barack Obama aveva dichiarato che una tale azione sarebbe stata una “provocazione”. Si trattava, da parte del presidente, di un tentativo per rinforzare gli sforzi dell’amministrazione Usa volti a convincere la Repubblica democratica della Corea del nord a rinunciare al lancio. Il tentativo è fallito, come sono falliti altri innumerevoli tentativi di negoziare con Pyongyang senza la dovuta decisione. Appare incredibile che Stephen Bosworth, l’inviato speciale degli Stati Uniti per la Corea del Nord, avesse rivelato appena quattro giorni prima del lancio di essere pronto ad andare a Pyongyang “non appena la polvere sollevata dai missili si sia diradata” per riallacciare il negoziato a sei.

Non stupisce che il Nord abbia fatto fuoco. Dopo il lancio la reazione dell’amministrazione è stata puramente retorica e, oh yes, per l’ennesima volta si è ripetuta la gita obbligatoria al Consiglio di sicurezza dell’Onu, che così potrà sgridare la spavalderia della Corea del Nord. Il problema è che Obama non sembra avere alcun piano, al di là di affidarsi a quello che potrà accadere al Consiglio di sicurezza.

Nel 2006, quando Pyongyang lanciò una raffica di missili e fece detonare un ordigno nucleare, il Consiglio di sicurezza reagì all’unanimità con le risoluzioni 1695 e 1718, che imponevano forti sanzioni militari e qualche sanzione economica. Sfortunatamente, l’impatto di quelle risoluzioni è stato drasticamente ridotto da quello che poi fece la diplomazia dell’amministrazione Bush, che all’atto pratico liberò la Corea del Nord dal cappio al quale era stata appesa. Scegliendo di tornare alla diplomazia piuttosto che aumentare le pressioni internazionali, George W. Bush concesse al Nord una nuova legittimità, e altro tempo.

Il lancio di ieri è colpa di errori passati, ma le sue conseguenze sono responsabilità del presidente Obama. Eppure il segretario alla Difesa Robert Gates dovrebbe annunciare in queste ore forti tagli al programma di difesa antimissile, una decisione straordinariamente errata (ieri Gates ha presentato il suo budget per la difesa, che tra le altre cose taglia il programma di difesa antimissile per 1,4 miliardi di dollari nel 2010, e pone termine all’accordo da 13 miliardi di dollari con Lockheed e l’italiana AgustaWestland per la fornitura dell’elicottero presidenziale Marine One. Il budget diverrà operativo una volta approvato da Congresso e Casa Bianca – ndt).

La prima bozza buttata giù dal Consiglio di sicurezza per rispondere al lancio missilistico di domenica, scritta da Giappone e Stati Uniti, è debole. Sostanzialmente si limita a ribadire le risoluzioni 1695 e 1718, e rinforza appena i meccanismi di pressione internazionale volti a farle rispettare. Si aggiunga che, prima del lancio, Cina e Russia avevano dichiarato esplicitamente di non avere alcun interesse in sanzioni più dure, avendo la faccia tosta di sostenere che Pyongyang vuole soltanto sviluppare un sistema di comunicazioni satellitare pacifico. Ovviamente, non sappiamo quel che uscirà dal Consiglio di sicurezza; ma le risoluzioni quasi mai diventano più severe quando i negoziati e le discussioni si prolungano. Ancor peggio di una risoluzione debole sarebbe però una “dichiarazione del presidente”, ossia una sintesi senza mordente delle opinioni del Consiglio.

In ogni caso, la Corea del Nord ha sconfitto ancora una volta il Consiglio di sicurezza, è andata avanti per la sua strada con l’appoggio di Russia e Cina, e adesso, presumibilmente, tutto quello che dovrà affrontare saranno altre suppliche da parte del presidente Obama e il ritorno del negoziato a sei. Questo negoziato è esattamente il posto dove Pyongyang vuole stare. Ne avrà benefici politici e materiali ancora più grandi, in cambio delle solite, vane promesse sull’abbandono del suo programma nucleare.

Fino ad ora, quindi, il lancio di domenica è stata una chiara vittoria per la Corea del Nord (anche se nessun satellite è entrato in orbita, tutti e tre gli stadi del missile sembra che abbiano funzionato, realizzando così il lancio missilistico di più lungo raggio mai effettuato da Pyongyang). Ma le ripercussioni negative si sentiranno ben oltre i confini dell’Asia nordoccidentale.

L’Iran ha studiato attentamente ogni mossa dell’amministrazione Obama, e l’unica conclusione cui Teheran è giunta non può essere altro che: è ormai tempo di restituire a Washington la pressione che prima la Casa Bianca esercitava su di noi. Non solo l’Iran ha le spalle coperte da Russia, Cina e altri amici nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma adesso vede un presidente americano talmente incline a legarsi le mani pur di riscuotere il consenso dell’opinione pubblica europea, che la lista dei desideri dei mullah riguardo alle concessioni da chiedere agli Stati Uniti sta crescendo di giorno in giorno.

Anche Israele starà considerando attentamente le reazioni americane allo strappo nordcoreano. La più importante lezione che il nuovo governo guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu dovrebbe imparare è: attento al "numero uno"! Chissà se Israele è pronto a difendersi, anche con la forza, dal programma nucleare iraniano; ma certo non dovrebbe trattenere il respiro aspettando che il signor Obama faccia qualcosa.

Russia e Cina, da parte loro, staranno ancora assaporando l’accaduto. In questa prima vera crisi hanno sgambettato Obama, coprendo al Consiglio di sicurezza un regime criminale e non pagando alcun tipo di dazio. Avranno concluso che non sarà troppo difficile realizzare i loro obiettivi nei tanti negoziati in agenda con gli Stati Uniti. Una conclusione del genere può sembrare ingenerosa verso il presidente americano; ma inevitabilmente imposterà le politiche di Mosca e Pechino, fino a quando non arriverà un segnale diverso. Già questa è una pessima notizia per Washington e i suoi alleati.

John Bolton, membro anziano dell’American Enterprise Institute, è l’autore di “Surrender Is Not an Option: Defending America at the United Nations and Abroad”, Simon & Schuster, 2007.

Tratto da Wall Street Journal

Traduzione di Enrico De Simone