Qualche considerazione su questi dieci mesi e sul perché lascio il mio incarico

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Qualche considerazione su questi dieci mesi e sul perché lascio il mio incarico

19 Febbraio 2014

Cari cittadini, si chiude in questi giorni un’esperienza di dieci mesi che sono stati intensi, complicati, appassionati. Al momento di lasciare il ministero delle Riforme è doveroso da parte mia dar conto di cosa in questi dieci mesi è stato fatto e di cosa è stato iniziato ma non è stato portato a termine. Di seguito il mio racconto, corredato dai documenti e dai testi di legge ai quali si fa riferimento. Voglio ringraziare quanti, in questi mesi, anche attraverso questo sito, mi hanno dato consigli, incoraggiato, criticato, augurando a tutti buona lettura!

L’esigenza di una riforma delle istituzioni, nota in Italia da almeno trent’anni, si è manifestata in tutta la sua drammatica urgenza negli eventi che hanno segnato la fine della passata legislatura e l’inizio di quella vigente. Dapprima, il nostro Paese si è trovato disarmato di fronte a una crisi economico-finanziaria senza precedenti dal secondo dopoguerra: priva degli strumenti di una democrazia realmente decidente, e in presenza di una crisi altrettanto profonda del sistema partitico, l’Italia ha avvertito le difficoltà più di altri Paesi dell’Occidente che pure possono vantare fondamentali economici meno solidi e un tessuto produttivo non altrettanto sano. Nella seconda metà della scorsa legislatura la politica ha dovuto cedere il passo ai tecnici, e partiti fra loro avversari sono stati chiamati a una prima comune assunzione di responsabilità. Neanche questo, tuttavia, è bastato perché le riforme messe in cantiere giungessero a compimento. L’assetto costituzionale è rimasto immodificato e, nonostante gli sforzi messi in campo, una agguerrita resistenza trasversale ha impedito anche la modifica della sola legge elettorale, nonostante l’evidenza di un quadro politico ormai profondamente mutato rispetto al tempo in cui il “Porcellum” era stato concepito.

Ciò che è accaduto dopo è stato la naturale e ineluttabile conseguenza di queste premesse. Le elezioni politiche del febbraio 2013 hanno visto un non-vincitore, un non-sconfitto e un exploit della forza che si proponeva come anti-sistema. Una legge elettorale ormai lunare rispetto al contesto, a fronte di un sostanziale pareggio fra due coalizioni fermatesi al di sotto del 30 per cento, ha prodotto il miracolo della triplicazione dei seggi alla Camera. Neppure la legge Acerbo ha determinato una simile distorsione. Essa, tuttavia, non ha messo il non-vincitore nelle condizioni di formare un governo, ma gli ha attribuito un peso parlamentare enormemente superiore al suo peso politico e per questo difficilmente gestibile: lo si è visto nella notte più lunga della Repubblica, quando è sembrato che il Parlamento, stremato da due mesi di vana ricerca di un governo impossibile, non fosse in grado di eleggere il Capo dello Stato.

I sessanta giorni che hanno preceduto la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale e la formazione del governo Letta hanno messo in luce la falla strutturale nel sistema istituzionale del Paese e anche il rischio altissimo corso dal centrodestra: che il grimaldello per sbloccare la situazione passasse non da una comune assunzione di responsabilità di due schieramenti avversari, quanto dalla saldatura tra la parte sinistra dell’arco costituzionale e il polo anti-sistema, uniti non da una base programmatica ma da un comune nemico da distruggere. Quei due mesi hanno reso evidente anche che l’unica via per uscirne – per il Paese e per il centrodestra – passava dalla riforma delle nostre istituzioni, che avrebbe reso l’Italia una democrazia finalmente moderna e il centrodestra socio fondatore di una nuova stagione.

Si arriva così dapprima all’istituzione dei gruppi di lavoro voluti dal presidente Napolitano, dunque al varo del governo d’emergenza tanto invocato – almeno a parole – dall’allora Popolo della libertà e fondato su una duplice ragione sociale: affrontare la crisi economica e sottoporre l’architettura dello Stato a una poderosa opera di revisione. Nel mezzo, però, la Repubblica vive la sua notte più lunga. Nelle urne di Montecitorio, che ospita la seduta comune convocata per eleggere il nuovo Capo dello Stato, vengono impallinati prima Franco Marini (candidato condiviso fra i non-vincitori e i non-sconfitti) e poi Romano Prodi (bandiera del Pd).

Di fronte allo spettro di una paralisi istituzionale senza precedenti, le principali forze politiche, con Silvio Berlusconi in testa, salgono al Colle con il cappello in mano implorando Giorgio Napolitano di dare la sua disponibilità per una rielezione che lui aveva categoricamente escluso. La storia renderà merito a un anziano servitore dello Stato di aver salvato la nostra Repubblica.

Il suggello della tregua dopo due mesi di straordinaria follia è la nascita del governo Letta. Per le riforme, dopo trent’anni di fallimenti, sembra essere l’ultima chiamata. Senza appello. Nel centrodestra si avvertono i primi scricchiolii: flebili, quasi impercettibili, ma sufficientemente chiari per chi sa e soprattutto vuole leggere i fatti. Ma è il Partito democratico ad arrivare all’appuntamento fiaccato e logorato dai sessanta giorni precedenti.

Il programma di partenza è vasto, la clessidra dei diciotto mesi a disposizione per le riforme corre inesorabile. E allora, poco dopo il suo insediamento, il governo, sostenuto da mozioni parlamentari d’indirizzo, mette in campo un progetto di deroga all’articolo 138 della Costituzione che disciplina le modalità di modifica della Carta stessa. Il proposito è lineare: rafforzando le garanzie del procedimento di revisione (la deroga avrebbe riequilibrato le distorsioni iper-maggioritarie del Porcellum a tutela delle opposizioni e avrebbe consentito lo svolgimento del referendum popolare confermativo anche in caso di un consenso parlamentare superiore ai due terzi), in prima lettura le Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato, opportunamente calibrate nella composizione, avrebbero potuto lavorare insieme, guadagnando tempo prezioso e fondando su una base politica più solida un ambizioso progetto di riforma della forma di Stato (Titolo V), bicameralismo, forma di governo e connessa legge elettorale. Un cronoprogramma ragionevole ma serrato avrebbe poi portato entro la scadenza prevista alla conclusione del percorso.

I mesi necessari ad approvare la deroga all’articolo 138 non sarebbero nel frattempo andati sprecati. Avrebbero dato tempo al Pd di riassestarsi e riassorbire il trauma in vista di un’impresa così ambiziosa e impegnativa. E, nel merito, avrebbero consentito di chiarirsi le idee sui problemi da affrontare e le diverse opzioni per risolverli.

A questa esigenza rispondono le ulteriori iniziative messe in campo dal governo tra giugno e luglio. Da un lato la Commissione per le riforme costituzionali, sui cui risultati torneremo più avanti. Dall’altro la consultazione pubblica più partecipata d’Europa, per coinvolgere i cittadini nel percorso delle riforme e, sfruttando le potenzialità della Rete e delle nuove tecnologie, avvicinarli a una materia che investe il fondamento stesso della convivenza civile. Compilando questionari online (ben 203.061 quelli validati), partecipando a dibattiti e navigando su fruibili schede di approfondimento, centinaia di migliaia di italiani giovani e meno giovani hanno potuto appassionarsi ai temi della Costituzione e delle riforme, anche in vista di un referendum nel quale secondo il progetto del governo sarebbero stati chiamati a pronunciarsi.

Mentre il lavoro procede, anche sugli altri fronti caldi l’esecutivo non resta a guardare. Si intensifica (invano) il pressing sulle forze politiche affinché il Parlamento intervenga a depurare il Porcellum delle sue storture prima che a farlo sia la Corte costituzionale. A luglio viene presentato il disegno di legge che abolisce il finanziamento pubblico ai partiti, trasformato pochi mesi dopo in decreto legge per consentirne l’immediata entrata in vigore. Ad agosto è la volta del disegno di legge che abolisce le Province e, in attesa della riforma del Titolo V, mette ordine nei livelli di governo territoriale.

Agosto, però, è anche il mese in cui la sentenza contro Silvio Berlusconi terremota la politica italiana, facendo detonare le tensioni interne al centrodestra e precipitando il già complesso quadro dei rapporti fra i due maggiori contraenti di questo patto riformatore fra avversari.

Si innesca così un doppio registro: da un lato lo scontro sull’applicazione della legge Severino; dall’altro, il dovere di andare avanti coniugando la battaglia contro l’uso politico della giustizia con i bisogni del Paese, nella consapevolezza che è anche da istituzioni  più forti e da una politica più autorevole che passa la diga contro lo sconfinamento di altri poteri dello Stato, sciaguratamente privati di ogni contrappeso in altre stagioni della storia della Repubblica.

E così, mentre sul ring della politica ci si randella sul principio di irretroattività delle norme afflittive, con un mese di anticipo e avendo risparmiato due terzi del budget di funzionamento assegnato, conclude i suoi lavori la Commissione per le riforme. I giuristi e politologi che gratuitamente hanno messo le loro competenze al servizio delle istituzioni producono una relazione eccellente e per nulla scontata. Per la prima volta dopo oltre mezzo secolo di ostracismo il costituzionalismo di centrosinistra e quello di centrodestra siedono allo stesso tavolo con pari dignità, si confrontano e cercano soluzioni al riparo da ogni strumentalità e sudditanza intellettuale. E se molte delle ipotesi oggi avanzate in tema di riforme corrispondono esattamente al prodotto di quei mesi di lavoro, forse è il segno che lo sforzo compiuto merita di essere considerato.

Dopo la burrascosa pausa estiva anche il Parlamento riapre i battenti. Sulla terza lettura del disegno di legge costituzionale di deroga all’articolo 138, una parte dell’allora PdL consuma una prima, esplicita imboscata. Non ancora fatale, ma certamente eloquente. Da quel momento sarà un crescendo. Finché una sera, fallito ogni tentativo di mediazione, il più grande partito del centrodestra si divide. Una trentina di senatori e altrettanti deputati scelgono di salvare le riforme, il sistema, il Paese. Nasce il Nuovo Centrodestra. E per il contesto, il modo e il terreno sul quale è nato questo nuovo centrodestra è già in se stesso, per certi versi, una riforma. Se Angelino Alfano e quei sessanta parlamentari non avessero avuto il coraggio di compiere il passo che hanno compiuto, le macerie non avrebbero investito solo la loro metà campo, ma avrebbero travolto l’Italia e ogni speranza di cambiamento. Lo stesso Partito democratico, invece di celebrare le sue primarie, assai probabilmente sarebbe rimasto tramortito dall’implosione del sistema.

Il prezzo di quei giorni di straordinaria follia è un brusco, obbligato cambio di programma. La Forza Italia “reloaded”, infatti, non solo passa all’opposizione del governo ma si chiama fuori dal percorso delle riforme: si mette di traverso. E così, prima della quarta lettura che avrebbe inesorabilmente sancito il venir meno dei due terzi, l’esecutivo è costretto a rinunciare alla deroga all’articolo 138. Si torna al percorso ordinario, più lungo e politicamente insidioso. Di conseguenza, anche il campo delle riforme si resringe: il progetto di cambiare la forma di governo attraverso l’investitura popolare diretta del vertice dell’esecutivo, e di elaborare una legge elettorale connessa, dopo la defezione forzista diventa velleitario. Se non altro per ragioni di tempo. La modifica del sistema di voto acquista così una sua autonomia e anche una sua impellenza, vista anche la sentenza della Consulta che nel frattempo ha dichiarato incompatibili con la Carta aspetti fondamentali della precedente legge (liste bloccate e premio di maggioranza a prescindere da una soglia). Quanto alle riforme costituzionali, si decide di concentrarsi su alcuni capitoli, a cominciare dal superamento del bicameralismo perfetto e dalla riforma del Titolo V.

Il governo non si ferma un solo giorno. Mette in cantiere diversi disegni di legge: non solo astratti principi, ma articolati completi e comprensivi di relazione illustrativa. Riforma del bicameralismo, Titolo V con un collegato sulle limitazioni alle società partecipate, abolizione del Cnel. E anche il completamento del nuovo articolo 81 della Costituzione attraverso l’introduzione di stringenti limitazioni agli emendamenti di spesa: un “fuorisacco” reso d’obbligo dopo gli assalti alla diligenza consumatisi sui provvedimenti economici e soprattutto sul naufragato decreto “salva-Roma”.

Tutto è pronto, nero su bianco. Ma i testi sono destinati a restare ancora nel cassetto. Poiché infatti ogni giorno ha la sua pena, l’approssimarsi delle primarie per la segreteria del Pd rallenta l’attività di governo sulle riforme. Viene segnalata l’esigenza di attendere, prima di compiere passi di questa portata, che alla guida del partito di maggioranza relativa vi sia un interlocutore nella pienezza delle sue funzioni. Insomma, il segretario in pectore vuole giocarsi la partita in prima persona e gradisce che lo si aspetti. Comprensibile, purché poi la cortese attesa non venga utilizzata per lanciare accuse di immobilismo.

Passano le settimane, e finalmente la lunga liturgia d’incoronazione al Nazareno  giunge a compimento. Matteo Renzi ottiene dalle primarie la legittimazione che cercava, incassa il rientro di Forza Italia nel perimetro delle riforme ed entrando in campo con i galloni da segretario è destinato a segnare, in un modo o in un altro, la fine della lunga apnea alla quale il governo Letta era stato costretto.

La novità avrebbe potuto determinare un nuovo equilibrio, fondato su due binari paralleli: da un lato la ri-partenza (non certo da zero) del percorso delle riforme, con l’allargamento all’opposizione e il segretario Pd determinato a giocarsi su quel terreno la sua personale scommessa nel ruolo di pivot, anche se certamente non di unico attore; dall’altro il rilancio del governo Letta, sia in termini di squadra che di programmi.

Per favorire questo nuovo equilibrio, fin da allora avevo manifestato la disponibilità e anzi la volontà, in sede di rimpasto o di Letta-bis, a passare la palla al Parlamento e a rinunciare al ministero delle Riforme la cui esistenza, nel nuovo scenario, non ritenevo più utile per l’accelerazione del processo di revisione costituzionale. Avevo comunicato questa decisione al presidente Letta e al vicepresidente Alfano.

Poi invece del rilancio, del rimpasto e del Letta-bis si è consumato un avvicendamento, tutto interno al Partito democratico, per la poltrona più ambita di Palazzo Chigi. Come personalmente ho vissuto quei giorni drammatici, seppur assolutamente ininfluenti rispetto al mio personale destino, è cosa nota e non è questa la sede per tornarci su. Ora non resta che augurarsi che gli eventi di queste settimane abbiano messo fine a un congresso permanente nel Partito democratico che il Paese ha già pagato fin troppo caro, e possano riportare il percorso delle riforme nel giusto alveo: un alveo che parte dalla maggioranza ma che non deve disperdere il proficuo coinvolgimento di forze dell’opposizione.

Questa è la ragione per la quale, in ogni caso, non ritengo utile proseguire nel mio impegno di ministro delle Riforme. D’altra parte, chi le riforme le vuole davvero, e non ne fa un problema di poltrone da mantenere o di meriti da rivendicare, non può che prendere atto del nuovo contesto politico e agevolare questo percorso. Ciò affinché il cammino delle riforme prosegua e per potervi partecipare con la necessaria libertà, perché la forza delle proprie idee risulterebbe compressa in un ruolo non più adatto al quadro attuale. E invece solo l’affermazione di idee e progetti maturati in questo tempo di governo potrà dimostrare che i nove mesi e poco più dell’esecutivo guidato da Enrico Letta non sono stati una stagione inutile ma la laboriosa gestazione di un’Italia nuova.

Questo non è un epilogo scontato. Se il nuovo governo di Matteo Renzi nascerà, c’è chi tra gli oppositori dell’esecutivo, con più o meno consapevolezza, lavorerà per portare indietro le lancette dell’orologio. Continuerò a battermi con tutta la forza e il coraggio per impedirlo.

Grazie.

LEGGI L’INDICE DEI DOCUMENTI

(Il testo della lettera scritta dal ministro Gaetano Quagliariello, apparsa oggi sul sito riformecostituzionali.gov.it)