Qualcosa non torna nei rapporti tra gli ebrei italiani e la Santa Sede
01 Febbraio 2009
Il vaticanista del «Giornale», l’ottimo Andrea Tornielli, ha confessato recentemente di non riuscire a capire, pur avendoci riflettuto a lungo, le ragioni del progressivo irrigidimento dell’ebraismo italiano (o almeno di una parte dei suoi rappresentanti) nei rapporti con la Chiesa cattolica: tanto più di fronte a un papa come Benedetto XVI, che «più dei suoi predecessori ha riflettuto e scritto sul legame imprescindibile e non assimilabile a quello di altre religioni che unisce ebrei e cristiani». La nuova versione in latino della preghiera del venerdì santo Et pro Judaeis non sembra costituire un salto di qualità rispetto a quella presente nel c.d. messale di Paolo VI, né il giudizio attuale della Santa Sede sulla politica dello Stato di Israele appare più freddo e distaccato rispetto al passato: anzi, semmai, sembra vero il contrario. Dopo lo scritto di Tornielli, si è avuta la vicenda della remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani, fra i quali uno risulta aver fatto affermazioni negazioniste: vicenda che è stata evidentemente gestita in modo tutt’altro che perfetto da parte dei più diretti collaboratori di Benedetto XVI, ma sospettare che essa comporti una qualche tolleranza per opinioni di quel tipo risulta evidentemente una forzatura polemica. Insomma per Tornielli, le ragioni di questo irrigidimento restano un «mistero».
Devo dire che non proprio self-evident, per non pochi aspetti, sono apparse anche a me, che pure questo irrigidimento avvertivo nell’aria già da qualche mese. Ho cercato di ragionarci sopra, seguendo gli articoli dello stesso Tornielli e di alcuni altri che reputo affidabili (nel bombardamento mediatico a cui siamo quotidianamente sottoposti dobbiamo pur fare delle scelte) e sono giunto a formulare alcune ipotesi meno legate alla contingenza: qualunque fondamento esse abbiano, sono comunque ispirate dal massimo rispetto e dalla consapevolezza, viva anche in un quidam de populo come chi scrive, dell’importanza decisiva, nei nostri anni, di un rapporto positivo e fecondo fra ebraismo e cristianesimo.
Spunti interessanti sono stati forniti da alcuni commentatori: il priore di Bose, Enzo Bianchi, uno dei pionieri dell’ecumenismo e del dialogo con l’ebraismo, ha ribadito sulla «Stampa» l’origine scritturale delle preghiere del venerdì santo e ha escluso che ad esse sia sotteso un intento o un’aspirazione conversionistica. Sul «Foglio» Giorgio Israel ha ipotizzato un’alleanza in funzione anti-ratzingeriana fra alcuni settori dell’ebraismo italiano e frange del cattolicesimo progressista: non a caso l’articolo del rabbino veneziano Elia Enrico Richetti (quello che ha dato definitiva visibilità alla vertenza) è stato ospitato sul mensile «Popoli», la rivista missionaria dei gesuiti italiani. Il padre David M. Jaeger ci ha ricordato che l’ebraismo non ha una «gerarchia», e «i rabbini non sono né sacerdoti né, molto meno, “vescovi”, ma sono piuttosto periti e docenti della Torah e delle leggi religiose, autorevolissimi certo all’interno di questa sfera, ma quando si esprimono su altre materie, non manifestano che i loro giudizi personali, da rispettare certamente sempre, ma non da ritenere proclami che impegnano l’intera collettività, e meno ancora collettività diverse da quelle rispettivamente da loro servite». Anche Sandro Magister ha ipotizzato che alcuni aspetti della vicenda rinviino a problemi interni all’ebraismo italiano e a una sorta di “arroccamento” che caratterizzerebbe alcuni suoi esponenti, come il rabbino capo di Roma, Di Segni, che «ha inaugurato una dirigenza del rabbinato in Italia meno laica e più identitaria, più osservante di riti e precetti, e di conseguenza più conflittuale col papato sul versante religioso».
Credo anch’io – lo dico subito – che le scelte recenti dei rabbini italiani rispondano a una logica difensiva. Ma di che e rispetto a chi? Per farmi capire, ricorro nella maniera più rozza e schematica ad alcuni strumenti della sociologia delle religioni. Si può dire che anche quello religioso sia una sorta di “mercato” in cui – in determinati contesti – si incontra una domanda e un’offerta. Qual è l’offerta dell’ebraismo italiano in questo momento? O meglio, come si presenta, da un punto di vista religioso, di fronte a quella parte di opinione pubblica che è sensibile a queste problematiche? Sono consapevole – sia detto una volta per tutte – dell’immensa ricchezza della tradizione religiosa e della cultura che circola nel nostro ebraismo: mi chiedo solo quale percezione esso offra di sé all’italiano medio, che cerchi di orientarsi nell’«offerta religiosa» dei nostri giorni. Credo che si caratterizzi per due punti: la memoria continua e dolente della Shoah e il sostegno “politico” e valoriale allo Stato d’Israele. Si tratta di due problemi fondamentali e tale impegno gli fa onore.
Ma sono emerse nel mondo d’oggi molte altre sfide a cui l’uomo contemporaneo, soprattutto se religiosamente orientato, cerca di dare una risposta: quelle della bioetica, della sessualità in tutte le sue forme, dell’aborto, della famiglia “naturale” e di quelle alternative, del problema dei confini della vita, al suo inizio come alla sua conclusione. Emergono poi vaste problematiche sociali, da quelle attinenti alla distribuzione delle ricchezze, nella nostra società e a livello internazionale, a quelle connesse ai rapporti fra le civiltà, le culture, le religioni. Infine nell’ultimo ventennio, con la crisi della cultura rivoluzionaria e più in generale dell’approccio ottimistico alla modernità, è riemerso il problema della “tradizione”, che coinvolge non solo molte frange di “battezzati”, ma anche – manifestamente – il mondo ebraico: lo testimonia la parabola biografica di alcuni dei più eminenti intellettuali ebrei italiani, il cui ebraismo era – quarant’anni fa – solo ambientale e familiare e che oggi è molto più consapevole e combattivo.
Mi pare che su questi problemi all’italiano medio (di cui parlavo prima) non arrivino, da parte del mondo ebraico, delle risposte forti e, quando arrivano, siano tutt’altro che univoche; e che non pochi dei suoi rappresentanti avvertano su tali temi la “concorrenza” del pensiero ratzingeriano. Esso chiede loro – come il Papa ha scritto di recente – di confrontarsi col cattolicesimo non tanto su (mi si passi l’espressione) astratti problemi teologici, ma sulle «conseguenze culturali» delle rispettive fedi religiose e indica, come primo terreno di confronto, la «crisi contemporanea dell’etica». Su tale terreno – sulla base del comune retroterra biblico – il confronto potrebbe essere molto ravvicinato e positivo e non impossibile la formulazione di risposte ispirate agli stessi valori. Lo conferma l’evidente feeling che con le posizioni del Papa dimostrano alcuni di quegli intellettuali ebrei a cui prima accennavo.
Ho l’impressione che non pochi settori dell’ebraismo italiano guardino con diffidenza a questo confronto e temano che esso conduca a una qualche omologazione, non delle due fedi religiose, ma dei corollari pratici che – in merito alle questioni oggi più avvertite come urgenti – ne potrebbero discendere. Da qui la tentazione, nella difesa dei propri spazi, dell’arroccamento e della ripresa di una logica di differenziazione polemica, le cui risorse sono immancabilmente offerte da determinati elementi del passato (i “silenzi” di Pio XII, l’antico conversionismo cattolico, la preghiera del venerdì santo).