Qualcuno prima di morire ha urlato “Giuliana!”
02 Agosto 2011
Oscillava sopra una pozza rossa e dalla sua bocca sgorgava un fiotto di sangue. Sul comodino vicino al letto galleggiava la lingua in un bicchiere d’acqua. Le dita erano state tagliate e depositate sotto di lui: sottolineavano la parola SPIA scritta col sangue.
Riuscii a reprimere un conato di vomito e chiamai la polizia.
Guardarlo così mi faceva compassione. Solo il giorno prima lo avevo salutato dopo esserci incontrati. Aveva quattro anni più di me, viveva da solo e faceva il bigliettaio in un teatro della città. Doveva essere una soluzione temporanea, perché lui avrebbe voluto fare l’attore. Intanto osservava tutti gli spettacoli, imparava copioni a memoria e li ripeteva: era un appassionato.
Fin quando i poliziotti non fossero arrivati, potevo dare un’occhiata in giro. Come ho già detto, tutto era in ordine, nessuna cosa era fuori posto. Sulla scrivania, proprio sotto il libro incriminato, c’era una breve lettera scritta a mano che diceva:
“Amore mio. Scusa per giovedì, ma non mi è proprio stato possibile venire con te al cinema, ma sapessi che cosa mi è successo. Ormai temo per la mia vita, da quando quel delinquente s’è messo in testa di comandare non ho più un attimo di pace. Se solo tu sapessi quanto mi è difficile vivere così, mi capiresti e non ti arrabbieresti così spesso. Sai che ti amo, ma per il momento non posso sposarti neanche altrove: in questo momento sarebbe la fine. Domani parlerò con …”
La lettera s’interrompeva qui, ma senza dubbio, doveva esserci almeno un altro foglio.
Mi misi carponi per terra alla ricerca della pagina mancante, poi la cercai in quella baraonda sulla scrivania, ma non la trovai. Ora che ci pensavo, l’unico punto di disordine era proprio la scrivania: doveva essere stato l’assassino a metterla a soqquadro per trovare e portarsi via la pagina che ora mancava.
I poliziotti erano arrivati. Mi cacciai in tasca la lettera che avevo trovato: fu un riflesso involontario, ma subito mi dissi che in quel momento serviva molto più a me che a loro.
Bisogna sapere che la porta della stanza da letto e quella dello studio (dove stavo io) erano spalancate ed erano perfettamente di fronte alla porta d’ingresso.
Non so cosa passò loro per la testa quando mi videro ritto in piedi sulla soglia della stanza accanto a quella dove ciondolava così orribilmente il cadavere, ma sono sicuro che stavano per spararmi.
Fortunatamente, oltre a dei poliziotti che non conoscevo, c’era anche la mia amica Rita.
«Laerte! Che diamine ci fai qui?» mi chiese mentre raccoglieva la mascella da terra.
«Ti posso spiegare».
«Sono proprio curiosa».
«Ero venuto qui perché dovevo uscire con Massimiliano, ma quando sono arrivato l’ho trovato appeso».
«Ah sì?! E allora dimmi come hai fatto ad entrare».
Mi aveva decisamente fregato, dovevo inventare qualcosa alla svelta. Non potevo mica dire che ero entrato con un trucchetto che mi avevano insegnato dei muratori al bar.
«La porta era socchiusa».
«Chiedete ai vicini se hanno visto o sentito qualcosa».
Era amabile quando comandava. Mentre loro facevano i rilievi, me ne stavo seduto nel salone a osservarli.
Rita venne verso di me e disse: «Come ti senti? Prima non te l’ho chiesto».
«Insomma… Stavo meglio prima… Cosa dicono i vicini?».
Quando mi rispose, il tono della sua voce divenne sardonico: «Un tipo alto quanto te, della tua corporatura, coi tuoi tratti somatici e coi vestiti uguali ai tuoi è stato visto battere furiosamente alla porta e gridare a gran voce il nome di Massimiliano».
«Chissà quanti ce ne sono a Bari» dissi con tono scherzoso.
«Ora che ne dici di dirmi veramente perché sei venuto qui?».
Abbassai la voce e le risposi con tono confidenziale: «Non qui. Stasera, vieni a casa mia».
«Meno male che abitiamo sullo stesso piano».
Non aveva tutti i torti. Grazie a questa vicinanza avrei avuto l’esclusiva su quanto succedeva all’inchiesta.
«Che ne dici? Me ne posso andare?».
«Va bene. Ma ricordati che questa sera dobbiamo parlare: non te la puoi squagliare all’inglese come al solito».
«Certamente» e detto questo uscii salutando.
A casa, sdraiato sul letto, feci alcune riflessioni.
Mi arriva una richiesta di aiuto da parte di Massimiliano che insinua che uno dei personaggi più potenti di Bari è in serio pericolo. Arrivo a casa di Massimiliano e lo trovo morto in quella maniera orribile, come un’esecuzione.
Sulla sua scrivania trovo una lettera della sua fidanzata che corre un serio pericolo, e l’assassino ne porta via una parte presumibilmente per evitare di essere compromesso. Il problema era serio, e non riuscivo a capire in nessuna maniera in che modo questi tre avvenimenti potessero concatenarsi fra loro.
Pochi sanno che, quando si fa parte di una scuola Zen, bisogna fare lunghi esercizi di meditazione e che, nel caso qualcuno si addormenti, il maestro infligge colpi sulla testa con un apposito strumento: fortunatamente io non avevo nessuno di questi maestri nelle vicinanze. Tutto questo per dire che dalla meditazione anche io passai al sonno senza nemmeno accorgermene.
Non ricordo quanto dormii, ma so con certezza che fui destato dallo scampanellio alla mia porta: lo Specializzando e la Dirigente erano tornati. In breve cucinammo e ci mettemmo a tavola.
«Oggi, ci siamo accorti che sono sparite alcune scatole di anestetico, di bende, alcuni attrezzi chirurgici, lenzuoli, persino un lettino. Il direttore ha dato fuori di matto. Non riusciamo proprio a immaginare chi e come abbia fatto a rubarli: il guardiano notturno non ha sentito nulla».
Poi parlò la Dirigente, che chiamavamo così visto che dirigeva un non meglio specificato settore al Comune. Lei aveva una storia molto più piccante: quella stessa mattina, l’assessore (lo stesso per cui temeva Massimiliano) s’era suicidato. Lo avevano trovato impiccato per la cravatta al lampadario del suo ufficio. Nessun biglietto, nessuna spiegazione, quelli con l’ufficio vicino avevano sentito solo che gridava: “Giuliana!”.
«Chi è Giuliana?».
«Sua moglie. L’aveva lasciato ieri e dovevano divorziare. Pare che lei abbia trovato un altro».
«Chi è?».
«Non lo conosce nessuno. Nessuno sa da dove viene».
A fronte di questa nuova rivelazione potevo anche ipotizzare che Massimiliano fosse il misterioso amante e che la signora fosse l’autrice della lettera che avevo trovato sotto il libro. Ma era surreale: Massimiliano era morto, mentre quell’amante era vivo da qualche parte. La correlazione di quel suicidio a così breve distanza da quell’omicidio (tenendo sempre presente l’avvertimento di Massimiliano nei confronti dell’assessore), mi stuzzicava come un sorbetto di champagne prima di una bistecca di manzo.
«Chi lo ha visto per primo?».
«Non lo so, non ero lì. Me lo hanno raccontato».
Dannazione! Nemmeno informazioni di prima mano erano.
«Però Rossana potrebbe saperne di più: il suo ufficio è attiguo a quello del povero assessore».
Era un’ottima notizia.
Per un attimo la conversazione si spense. Fra me e me pensai alla frase appena pronunciata. Quando qualcuno muore, tendenzialmente, finisce con l’essere definito “povero”: nella nostra mentalità la morte non viene mai vista sotto l’ottica del cambiamento o della raggiunta pace, ma sempre della perdita. Strano in un paese di sedicenti cristiani.
A ogni modo, la prima mossa da fare era entrare in contatto con quella tale Rossana e chiederle che cosa aveva visto e sentito precisamente all’ora del suicidio.
Dopo pranzo, pensai anche di chiamare la moglie dell’assessore per prendere un appuntamento con lei.
Precisamente non sapevo come avrei fatto ad incontrarla e a farmi rispondere su alcune domande, suppongo che avrei improvvisato. L’ora era alquanto sconveniente per chiamarla… con quello che le era successo…
Dopo il caffè, la Dirigente uscì e lo specializzando andò a dormire. Io rimasi da solo senza nulla da fare.
Rimasi in salone, zona della casa perennemente baciata da un sole discreto e lucente, i cui raggi bianchi giungevano distillati dalle tende chiare. Sprofondato nella mia poltrona preferita, attendevo che le lancette dell’orologio iniziassero a girare da destra verso sinistra o, più semplicemente, godevo di quella che i poeti chiamano beata solitudo. Nella casa regnava pace e silenzio.
C’era molto da risolvere: chi aveva ucciso Massimiliano, chi e perché aveva preso un foglio di quella lettera e perché Massimiliano temeva per la vita dell’assessore suicida.
Rimasi immerso nei miei pensieri per un po’, finché non fece capolino lo Specializzando.
«Ma stanotte, non devi fare la guardia? Non dormi?».
«Non ho sonno. Fumo una sigaretta e vado a riprovare a dormire. A che pensi? Hai una faccia che è tutto un programma».
«A Massimiliano».
«Che cosa è successo a Massimiliano?».
«Sicuramente lo leggerai domani sui giornali. Tanto vale che te lo dica. Stamattina sono andato a casa di Max, e… come dire con delicatezza… l’ ho trovato morto ammazzato».
Forse non era stato l’apice della diplomazia o della delicatezza, ma almeno era efficace. Lo Specializzando ebbe un moto di stupore, poi tirò una profonda boccata e sputò il fumo sopra di sé. Presumo stesse pensando alla faccenda, alla morte di Max e a come facessi a saperlo. Mi potevo aspettare una domanda del tipo: “Tu stai bene?” o “Vuoi parlarne?”, ma mi conosceva troppo bene per farmi simili domande da parrocchia. Mi chiese invece:
«L’ hai scoperto tu?».
«Sì. Sono entrato con una scheda telefonica in casa sua e l’ ho trovato. Ho chiamato la polizia e per fortuna c’era Rita».
«Scommetto che vorrai continuare a inzuppare il pane».
«Effettivamente…».
«Mi raccomando, apri gli occhi. Lo sai che si diceva di Massimiliano? Che fosse immischiato in un giro poco pulito. Ogni tanto lo si vedeva con un’auto nuova con abiti costosi e via dicendo. Non ti pare strano col lavoro che faceva?».
«Stai tranquillo. Questa è l’occasione per partecipare a un caso vero. Non un romanzo o un film, questa volta c’è un morto vero».
E pensare che quel morto di cui ero così contento era stato un mio amico. Non carissimo, ma era una persona con cui mi piaceva trascorrere il tempo. Ero proprio cinico, ma se provavo ribrezzo per tale cinismo, voleva dire che in fondo non ero del tutto cinico, ma solo distratto.
«Ora devo a dormire, se proprio devi intrometterti, spero che tu faccia solo quello che ti consente di fare Rita».
«Va bene, ma sappi che mi togli metà del divertimento».
Con quelle parole mi dimostrava la sua amicizia e non mi andava di tradirla facendomi ammazzare.
Forse non riuscivo a vedere pienamente il pericolo, ma in fin dei conti nessuno sapeva che mi stavo occupando della faccenda.
Sapevo che Rossana aveva orari lunghi e perciò l’avrei trovata quel pomeriggio nel suo ufficio.
Con la moto non ci misi molto ad arrivare da lei.
La prima osservazione che mi venne in mente quando fui là riguardava l’atmosfera degli uffici comunali, che hanno l’aria del nosocomio in decadimento anche nelle migliori giornate. Forse è per via del detersivo che viene usato per pulire i corridoi, che ha lo stesso odore di una corsia, o forse per via dei riflessi bigi degli armadi e scaffali metallici.
In quello scenario, vedere Rossana allegra e gioviale, aveva un effetto catarifrangente.
Dopo i soliti convenevoli, affrontai l’argomento che più m’interessava:
«Ho saputo che l’assessore Calcagni si è suicidato».
«Non me ne parlare, sapessi l’impressione che mi ha fatto. Per poco lo raggiungevo».
«Ha lasciato qualche biglietto d’addio?».
«No, quando sono entrata non c’era nulla e tutto era in ordine. Che impressione!».
«Sì, sì. Certo. Ma dimmi, ha detto qualcosa prima di morire?».
«Sì. Ha gridato “Giuliana”».
«Sei sicura ? Non potrebbe essere che hai confuso con qualche altra cosa?».
«No. Era proprio il nome della moglie, anche se era più simile a un grido soffocato con “lian” al centro».
Quella donna aveva le capacità intellettive di un’iguana a cui è stata data una sprangata in testa.
«Che vuol dire “un grido soffocato con ‘lian’ in mezzo”?».
«Che ho sentito distintamente solo “lian” e poi un gorgoglio soffocato, per la precisione, ma sicuramente ha detto “Giuliana”. L’assessore deve aver detto l’inizio del nome a bassa voce e poi aver preso coraggio ed essersi buttato, la vocale conclusiva del nome gli era morta in gola per via del soffocamento».
La salutai e tornai a casa.
Non v’era dubbio che il nome che aveva gridato era quello della moglie e dovendo scartare l’ipotesi che si trattasse di un grido d’aiuto, salutavo anche la possibilità che Massimiliano potesse avere avuto ragione sui suoi timori.
Dovevo chiamare la vedova dell’assessore per fissare un appuntamento. Avevo alcune domane da porle e qualcosina da appurare presso un caro confidente.
(Fine capitolo 2)