Qualcuno spieghi a Kant che le sue ragioni non sono universali

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Qualcuno spieghi a Kant che le sue ragioni non sono universali

Qualcuno spieghi a Kant che le sue ragioni non sono universali

30 Dicembre 2007

Massimo Onofri con La ragione in contumacia. La critica
militante ai tempi del fondamentalismo
(Donzelli, Roma, 2007) ha scritto un
pamphlet sulla critica letteraria attuale, ma al contempo su molte altre
questioni: la contesa fra relativismo e universalismo, il ruolo della critica,
il rapporto fra critica e democrazia. Lasciamo sullo sfondo i temi di cui non
siamo esperti – quelli squisitamente letterari -, che ci interessano però molto
come appassionati e fruitori di letteratura. A proposito di questi temi,
notiamo solo che i problemi del testualismo, dell’intertestualismo, del rimando
dell’opera alla realtà, come si sono sviluppati negli ultimi decenni, risultano
dipanati con chiarezza anche per un non addetto ai lavori. Non mancano nomi e
cognomi di coloro che, fra i critici letterari, vengono attaccati, e anche il
lettore comune, spesso afflitto dall’autoritarismo di certe voci insindacabili
sui media italiani, prova la sua parte di soddisfazione. Ma questa è la parte
del libro della quale non diremo altro poiché non siamo del mestiere.

Abbiamo una qualche
consuetudine, invece, con alcune delle altre questioni affrontate, e
specialmente con quella che circola per tutte queste pagine e che si potrebbe
riassumere in una domanda: le nostre ragioni sono ragioni universali? E’ nota
la battuta sferzante rivolta da Saul Bellow a chi opponeva al suo
occidentalismo un relativismo che non dubitava che ogni cultura, anche del
Terzo Mondo, anche non giunta a notorietà mondiale, avesse le sue ragioni e il
suo valore non inferiori a quelli della letteratura europea o americana:
“Mostratemi il Proust zulu.” La stessa discussione può essere proposta,
ovviamente, non solo per la letteratura: dove sono i capolavori immortali nelle
culture che chiedono di essere considerate alla stesa stregua della nostra
(euro-americana)? Dove sono i Kant, gli Hegel, i Nietzsche di queste culture
“altre”? Sono culture “altre” perché non le conosciamo o perché non hanno prodotto
opere e autori della stessa altezza della nostra? E’ in azione in questi
giudizi la presunzione eurocentrica oppure un giudizio realistico? E’ giusto
continuare a guardare alle culture “altre” dal punto di vista dei
colonizzatori? Lo sguardo post-coloniale in voga nei cultural studies deve tener conto, e in che misura, del fatto che
solo l’Occidente ha avuto un Dante, uno Shakespeare?

Tra
multiculturalismo, inclusione dell’altro e mutamenti etno-demografici nella
geografia del nostro mondo, negli ultimi tempi abbiamo avuto parecchio a che
fare con il problema della validità universale dei valori e del sapere che
appartengono al primo mondo: quello ricco e sviluppato al quale apparteniamo.
In particolare, da più parti è stato contrapposto all’universalismo che afferma
che i “nostri” valori sono valori universali, un relativismo che accetta come
membri aventi pari diritti e pari peso tutte le culture esistenti: il maggior
valore, il valore universale, del quale ci fregiamo deriverebbe solo da un
potere maggiore esercitato sul resto del pianeta. A questo si è aggiunto un
attacco all’universalismo proveniente da molteplici fonti: il femminismo, il
postmoderno, le culture subalterne nell’ambito di una stessa unità nazionale,
le culture etniche o marginali. Tutte queste voci hanno messo in questione la
validità per tutti dei nostri capolavori, autori, idee, sistemi politici,
conoscenze, visioni del mondo, hanno rivendicato parità dei punti di vista e
una universale equivalenza.

Onofri è ben
consapevole sia delle ragioni dell’universalismo sia  delle ragioni del relativismo. Si rende anche
conto con lucidità degli eccessi (reali e virtuali) dell’una e dell’altra
parte, e suggerisce di non contrapporre in modo così rigido universalismo e
relativismo,  proponendo quello che
chiama un “illuminismo trascendentale”: esso unisce la consapevolezza della
pluralità delle culture con l’accettazione della validità dei capolavori se non
altro nella cultura che è la nostra. Con le parole di Onofri: “Credo ci siano
ottime ragioni per sostenere (..) che una rinnovata prospettiva illuminista –
di illuminismo trascendentale, come si proponeva – debba necessariamente
passare per una definitiva acquisizione del ‘relativismo culturale’, proprio in
quanto valore universalizzabile.” La motivazione che spinge in questa direzione
è racchiuso in una domanda che l’autore pone a se stesso e a noi: “accettare il
‘relativismo culturale’ come prospettiva ineludibile per una corretta
comprensione delle differenti culture deve significare, per ciò stesso, la
rinuncia alla possibilità di continuare a parlare d’una natura umana comune, di
valori universalizzabili?”

Confessiamo che
mentre della pars destruens abbiamo
compreso  tutto, la congiunzione tra le
due opzioni in gara ci sembra spesso debitrice a equilibrismi non solo verbali.
L’universalismo nella  proposta citata
risulta essere quella posizione che accetta che le altre culture si esprimano
alla pari (relativismo): e resta pertanto universalista non solo nella forma ma
anche nel contenuto. E’ un universalismo che dovrà abbandonare giusnaturalismo
e arroganza etnocentrica (che poi forse coincidono), che dovrà parlare di una
universale natura umana in termini non metafisici, ma solo “storici,
antropologici, scientifici”. D’altra parte il relativismo, qui recuperato nella
sua parte valida e per così dire salvato dai relativisti, dovrebbe anch’esso
abbandonare un suo presupposto: quello secondo il quale le culture sono
“sistemi chiusi, monolitici, compiuti in se stessi una volta per sempre”. Pii desideri o
conciliazione possibile? Il dubbio resta, ma vale la pena di pensarci su.