Qualcuno spieghi all’Fbi che il Medio Oriente sta esplodendo

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Qualcuno spieghi all’Fbi che il Medio Oriente sta esplodendo

21 Novembre 2017

Saudi was not like this before ’79. Saudi Arabia and the entire region went through a revival after ’79. All we’re doing is going back to what we were: a moderate Islam that is open to all religions and to the world and to all traditions and people.’  Conference attendees broke into applause. Bin Salman’s reference to 1979 was doubtless a nod to a tumultuous year for Saudi Arabia that included Shiite militants overthrowing the secular Shah of Iran and Sunni fundamentalists seizing the Masjid al-Haram, or Grand Mosque, in Mecca. That same year, the country’s Shiite minority staged a deadly revolt in Al-Hasa province. The Saudi monarchy responded by shoring up ties with the Wahhabi religious establishment and restoring many of its hardline stances”. Parlando a Riad alla conferenza organizzata dalla Future Investment Initiative il giovane erede al trono Mohammad bin Salmān, come riferisce Eliott C. Mc Laughlin sul sito della CNN del 25 ottobre, ha detto che i sauditi devono tornare a prima del ’79, perché dopo quella data la presa del potere degli ajatollah a Teheran, il susseguente attacco alla grande moschea della Mecca e varie sollevazioni  di popolazioni sciite, hanno spinto la monarchia saudita a poggiare eccessivamente su religiosi di tendenza wahabita per contenere l’ondata fondamentalista ispirata dagli iraniani.

Oggi gli arabi devono tornare a essere tolleranti e aperti al mondo. E’ questo un discorso storico nella scia di quelli di Abd al-Fattāḥ al Sisi, del re del Marocco Muhammad VI, della gioventù islamica indonesiana, di tutti coloro che sono impegnati a neutralizzare le posizioni aggressive e repressive ben presenti nel pensiero religioso islamico. Una presa di posizione storica che ha trovato una fondamentale eco innanzi tutto in Israele. Così la considera  Benjamin Netanyahu che ha detto al Jerusalem Post il 5 novembre come il mondo debba stare a sentire: “When Israelis and the Arabs, all the Arabs and the Israelis, agree on one thing, people should pay attention. We should stop this Iranian take over “ quando tutti gli israeliani e tutti gli arabi dicono che bisogna bloccare l’espansionismo dell’Iran.  Infatti siamo in una fase in cui  “Il corridoio sciita è adesso aperto da Baghdad a Damasco”, come scrive sull’Huffington Post Italia dell’11 novembre  Umberto De Giovannangeli.

E’ un processo quello avviato da sauditi e israeliani non semplice. A questo si oppone, ad esempio, quella che era una nazione islamica ampiamente laicizzata come la Turchia prima che l’amministrazione Obama pasticciasse e la spingesse su posizioni parzialmente fondamentaliste (in realtà più nazionaliste). Recep Tayyip Erdogan di cui Affari italiani del 12 novembre raccoglie una dichiarazione antisaudita, ha detto: “Lo scopo di usare tale termine è quello di indebolire l’Islam” questo sarebbe l’effetto di dividere i musulmani tra moderati e estremisti. Ma intanto il Cairo è al lavoro: “Egypt is brokering a reconciliation between Mahmoud Abbas, who presides in the West Bank, and Hamas wich controlls Gaza”. Peter Baker sul New York Times dell’11 novembre scrive che l’Egitto sta cercando di conciliare l’Olp e Hamas in Palestina per isolare gli Hezbollah. I cambiamenti più tumultuosi avvengono nel frattempo a Riad: “Al Arabiya said that the anti corruption committee has the right to investigate, arrest, ban from travel, or freeze the assets of anyone who deems corrupt” David Kirkpatrick sul New York Times del 4 novembre cita al Arabiya che informa sulla commissione anticorruzione saudita che ha messo agli arresti domiciliari un bel pezzo delle élite di Riad.

A questi avvenimenti si può dare una spiegazione un po’ cinica: “To understand the upheaval that is taking place in Saudi Arabia today, you have to start with the most important political fact about that country: The dominant shaping political force there for the past four decades has not been Islamism, fundamentalism, liberalism, capitalism or ISISism. It has been Alzheimer’s” per capire il rivolgimento che sta avvenendo in Arabia saudita bisogna considerare che la forza principale che lì ha agito per decenni non è l’Islamismo, il fondamentalismo, il liberalismo, il capitalismo o l’Isisismo bensì l’Alzheimer , così scrive sul New York Times del 7 novembre Thomas L. Friedman. Forse però è meglio ascoltare l’esperto Gilles Kepel intervistato dal Corriere della Sera sempre il 7 novembre “Siamo giunti allo scontro frontale tra Arabia saudira e Iran. Ma il sistema di governo di Riad è troppo diviso, non organizzato per sostenere il confronto con quello centralizzato di Teheran” da qui la centralizzazione organizzata dal principe ereditario.

Intanto tutto il Medio Oriente è sottoposto a intense e diffuse scosse. “Il premier libanese Saad Hariri si è dimesso accusando Iran e Hezbollah di aver cercato di ucciderlo” scrive Alberto Stabile sulla Repubblica del 7 novembre. L’Iran “has deployed thousands of shiite afgan as shock troops in Syria’s sectarian war” ha inviato migliaia di sciiti afghani come truppe d’assalto nella Guerra siriana, scrivono Muijib Mashal e Fatima Fifth sul New York Times dell’11 novembre. “Thousand of iranians gathered for the anniversary of the 1979 seizure of the United States embassy” migliaia di iraniani hanno manifestat in occasione dell’anniversario della presa dell’ambasciata statunitense avvenuta nel 1979  scrive Marillia Brocchetto sul sito della Cnn, il 4 novembre. “A ballistic missile fired from Yemen closet yo the Saudi capital, Riyadh” un missile balistico è stato sparato contro Riad dallo Yemen scrivono  Shuaib Amosawa e Anne Barnard sul New York Times del 4 novembre.  “Via le sue (dell’Iran, ndr)  milizie dall’Irak” così la Stampa del 23 ottobre registrava una dichiarazione di Rex Tillerson, segretario di Stato americano che spiega Let’s see if we cannot address the flaws within the [Iran] agreement” vediamo se riusciamo a rimediare alle pecche che ci sono nell’accordo per bloccare la bomba nucleare iraniana così un’altra  dichiarazione di Tillerson raccolta da Tom Mc Carthy il 15 ottobre sul Guardian.

In una situazione così in movimento l’attività diplomatica su scala internazionale si intensifica. La Francia tradizionalmente legata a Libano e Siria, con recenti rapporti con Riad -a cui, in un momento di difficoltà delle relazioni americane-saudite dovute a uno dei soliti pasticci dell’amministrazione obamiana, aveva venduto armamenti sofisticati- e insieme coinvolta in intensi affari con Teheran, non è sicuramente un soggetto decisivo ma è particolarmente attiva. Emmanuel Macron si è recato a Riad. Saad Hariri il premier libanese dimessosi per paura di attentati degli Hezbollah, ricoverato (prigioniero, secondo alcuni) in Arabia Saudita è a Parigi “Viene ricevuto con tutti gli onori di un premier in carica. Per la prima volta, dopo le sue dimissioni, parla fuori dalla ‘custodia saudita’” scrive Umberto de Giovannelli su Huffington Post Italia del 18 novembre. “Nei confronti dell’Iran, il nostro augurio è che abbia una strategia regionale meno aggressiva e che si possa chiarire oggi la sua politica missilistica che sembra non sotto controllo. Ma l’Iran è una potenza con la quale noi ci auguriamo di dialogare, con la quale continueremo a dialogare“: così dichiara il presidente francese secondo una citazione delle sue parole registata da una nota del Sole 24 Ore on line del 17 novembre. “France should not interfere in Iran’s missile program, Ali Akbar Velayati, a senior adviser to Iran’s supreme leader, said on Saturday according to state media”. La Francia non dovrebbe interferire con il programma missilitico iraniano dice un consigliere dell’ajotallah Alì Khamenei secondo una nota della redazione della Reuters del 18 novembre. Mentre “Saudi Arabia has summoned its ambassador in Germany home for consultations over comments allegedly made by German Foreign Minister Sigmar Gabriel during a meeting with his Lebanese counterpart, the Saudi Foreign Ministry said on Saturday”, Riad ha richiamato il suo ambasciatore a Berlino dopo alcuni commenti del ministro tedesco in alcuni suoi incontri libanesi. Così una nota della Reuters del 17 novembre

Intanto “Russia, Turkey and Iran will hold summit talks on Syria next week as Ankara threatens a possible attack on U.S.-allied Kurdish forces and tensions rise between Moscow and Washington over the future of the war-torn state”. Russia, Turchia e Iran hanno convocato un vertice per discutere ad Ankara degli sviluppi della situazione curda in Siria. Scrivono Henry Meyer  e Taylan Bilgic su Bloomberg del 16 novembre. “Distruggere militarmente lo Stato Islamico è un’ottima cosa ma se poi non si gestisce politicamente il dopoguerra, si preparano nuove catastrofi. Dall’America sarebbe stato lecito aspettarsi un’iniziativa politico-diplomatica ambiziosa. Qualcosa di simile, per intenderci, a un Congresso di Vienna (quello originale ricostruì l’Europa dopo le guerre napoleoniche) in salsa mediorientale. Coinvolgendo, ovviamente, anche quella Russia che, grazie agli errori americani, è ormai stabilmente insediata nell’area” Ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 4 novembre. Qualcosa nel frattempo si è mosso. America  e Russia “the two countries have agreed that Syria must eventually hold UN-supervised elections to bring new leadership to the country as part of the process of ending its multi-year civil war, according to two senior State Department officials” si sono accordate per trovare una soluzione gestita attraverso un processo elettorale per dare stabili assetti alla Siria nel post guerra all’Isis, scrive Nancy Cook su Politico del 12 novembre.

Però il problema è come trasformare queste iniziative in un disegno strategico che non può non avere l’obiettivo di contenere l’azione destabilizzatrice dell’Iran. Ma come si fa a portare avanti quanto detto finché l’Fbi impedisce a Washington di svolgere un’adeguata politica estera?