Quale futuro per il liberalismo?

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Quale futuro per il liberalismo?

27 Settembre 2012

Quale futuro per il liberalismo? è stato il titolo della tavola rotonda tenutasi il 22 settembre scorso a Verona presso il Foyer del Teatro Nuovo, il cui ingresso è situato nello splendido cortile della casa di Giulietta. Protagonisti del dibattito sono stati, oltre al ben modesto sottoscritto, importanti studiosi e storici delle dottrine politiche, il senatore e professore Luigi Compagna, i professori Gerardo Nicolosi, Tommaso Frosini, Giovanni Giorgini.

Il dibattito ha preso le mosse dalla presentazione del Dizionario del liberalismo italiano di Rubettino Editore, la cui pubblicazione, come ha ricordato in una sintetica quanto efficace introduzione Nicolosi, viene oggi a colmare una lacuna nella produzione culturale italiana che si protrae dagli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, quando appunto la cultura liberale venne “messa in soffitta”. Accantonata non tanto a livello accademico, dove essa poté sempre resistere ed esprimersi, ma piuttosto nel dibattito pubblico e nel linguaggio comune dove il termine stesso “liberale” venne oscurato e adombrato, quando non spregiato, da una prevalente cultura improntata al socialismo od al “gramscismo” dominanti. Eppure come bene ha ricordato il senatore Compagna, in un brillante intervento, un liberalismo italiano è esistito e ha pesato e tutt’oggi pesa. E basterebbe evocare un nome che è sempre stato la voce alternativa a Gramsci nella discussione politica ed anche storiografica italiana: Rosario Romeo.

Tuttavia, rispetto alle ideologie trionfanti del passato, il liberalismo costituisce una categoria assai variegata, e possiede quindi una storia dalla quale non emerge un interprete unico. Non soltanto perché il liberalismo ha intrecciato nella sua storia altri percorsi del pensiero politico, come il socialismo, la dottrina sociale della chiesa, la democrazia cui oggi stesso è strettamente legato, nella prevalenza dei regimi appunto liberal-democratici; e non solamente perché oggi tutti, individui e partiti, a destra come a sinistra, si dichiarano “liberali” – talvolta fino al paradosso, ha ricordato lucidamente Giorgini, rammentando come anche un esponente del marxismo ortodosso come Achille Occhetto, all’indomani della Guerra Fredda che pure aveva diviso rigidamente il mondo in due parti, comunista l’una, liberale l’altra, ebbe modo di definirsi “liberale” in un incontro del 1994 con un Berlusconi di fresco sceso in campo.

Il liberalismo non è categoria monolitica, non è un’ideologia sistematica e conchiusa; anzi esso è semmai un metodo della vita politica e della vita sociale che consente la convivenza pacifica e fruttifera di una pluralità di idee ed ideologie. Esso non è una dottrina dello Stato quanto piuttosto un metodo di governo che si esprime e si sintetizza anzitutto nella capacità dello stato di “arretrare” davanti alla società civile ed alle individuali libertà, nel senso in cui Guido De Ruggiero esprimeva nel sul libro Storia del liberalismo europeo del 1925: “Nell’ordine politico questo vuol dire che la razionalità dello Stato liberale non sta nell’estensione illimitata del suo dominio, ma nella capacità di imporsi dei limiti e di impedire che il dominio della pura ragione si converta nell’opposto dominio del dogma e che il trionfo di una verità non chiuda la via a quel faticoso processo per cui la verità stessa si raggiunge”.

Questo sapersi “arretrare”, e limitare, dello Stato, è stato sottolineato in particolare da Frosini il quale si è soffermato in profondità sui rapporti tra costituzionalismo, ovvero tra i costituzionalismi, e il liberalismo. In particolare Frosini ha sottolineato come già in Montesquieu, nel capolavoro dell’ Esprit des lois, non va ravvisata superficialmente una astratta dottrina della separazione dei poteri, giuridico, legislativo ed  esecutivo, bensì una più sapiente e realistica teoria volta a frazionare ed arricchire l’articolazione del potere con l’obiettivo primario di “limitarlo”. La divisione dei poteri di Montesquieu, e la funzione anche degli enti intermedi per il loro esercizio, vanno interpretati nella prospettiva liberale tesa a limitare la sovranità, con la consapevolezza che chi detiene il potere tende inevitabilmente ad abusarne. Quanto mai attuale, e talvolta proprio nello specifico contesto italiano, appare oggi questa lezione montesquieana se è vero che più volte emerge prepotente lo strapotere del giudiziario, la sua influenza mediatica, la sua tentazione populista (cui peraltro non sono immuni nemmeno gli altri poteri) la sua inclinazione a volte ideologica e pervertita.

Certo il liberalismo non si riduce nemmeno ad un astratto formalismo. Il liberalismo moderno viene delineato a partire dalla dottrina di Locke, come ha ricordato bene Giorgini, passa attraverso la Gloriosa Rivoluzione, esce rafforzato dall’età dei Lumi e incontra nell’Ottocento gli ideali nazionali e di autodeterminazione dei popoli, per poi intrecciarsi con altri percorsi del pensiero politico più sopra accennati. Ma sempre una rimane la sua essenza, il suo nucleo pulsante: la centralità dell’uomo e della sua libertà. Di nuovo, esso non è perciò solamente un movimento e tanto meno un partito politico, ma costituisce un ben più ampio processo storico che attraversa tutta la storia europea ed occidentale, ed anzi con quella si identifica nella sua tensione verso il “regno dei fini” kantiano ancora di là da venire.

Il liberalismo così inteso ha le sue radici nell’umanesimo e nell’orizzonte culturale rinascimentale che riscopre le scienze naturali e le attività terrene in opposizione alla speculazione teologica, si confonde con il processo di secolarizzazione culturale che interviene a corroborare le già precedenti teorie dell’autonomia del potere politico rispetto al pensiero religioso. E se come “metodo” è tributario delle filosofie razionalistiche e immanentistiche che si opposero alle verità rivelate, assolute e definitive, e si aprirono invece all’esame critico e alla libera discussione, nella sua sostanza – la libertà dell’uomo – rinvia al lontano dibattito tra Martin Lutero ed Erasmo da Rotterdam intorno al libero arbitrio.

Nel Servo arbitrio Lutero affermò che l’uomo non è libero: irrimediabilmente segnato dal peccato e caduto, l’essere umano è impotente di scegliere tra il bene ed il male; schiavo delle passioni, solo la Grazia può guidarlo e salvarlo. Né molto divergenti da questa tesi saranno gli svolgimenti delle filosofie pessimistiche e irrazionalistiche nella storia del pensiero occidentale – da Shopenhauer a Cioran, autore il primo di un saggio sulla Libertà del volere umano, e della sua negazione, autore il secondo di La chute dans le temps dove ritorna l’immagine antica di un uomo caduto e condannato – , o quelli delle filosofie utopistiche e deterministiche che ugualmente faranno dell’uomo un automa guidato da forze che lo trascendono e lo incatenano.

E’ tuttavia a partire da Erasmo, che definì invece l’uomo dotato di libero arbitrio, libero e capace di scegliere tra il bene ed il male, che uscì vincente l’idea umanistica, destinata ad avere corso ed arricchirsi nella storia europea lungo altre e successive traiettorie, secondo cui l’uomo è artefice del proprio destino: homo faber ipsius fortunae.

Dunque Quale futuro per il liberalismo? In attesa di altre e future risposte ad una domanda che rimane sempre aperta, possiamo intanto rispondere prioritariamente ad un’altra interrogazione che sta più a monte, ed è anche più incombente e più grave: “avrà un futuro il liberalismo?” Risponderemo di sì, certamente sì… per quanti credono e vogliono continuare a credere nella libertà. In certo modo è una questione di fede. E forse anche per questo Benedetto Croce parlando del liberalismo lo definì non come filosofia della libertà, ma come religione della libertà – una religione certo da praticare non con la preghiera ma con il dibattito e la battaglia politica.