Quali iniziative sono necessarie per il comparto previdenziale?
29 Giugno 2009
I recenti moniti di organismi internazionali in ordine al problema dell’età pensionabile nel “sistema previdenziale Italia” e la più specifica vicenda della pensione di vecchia delle dipendenti pubbliche hanno riavviato la discussione circa la – eventuale – necessità di porre in essere ulteriori interventi di riforma del sistema pensionistico. Sul punto, da tecnico del settore, mi sembra il caso di ribadire quanto ho già evidenziato su questo giornale, anche di recente. Sulla specifica vicenda dell’età di pensionamento del personale femminile della Pubblica Amministrazione occorrerà necessariamente trovare, al più presto, una via di uscita ragionevole, attesi gli obblighi derivanti per il Paese dalla sentenza della Corte di Giustizia europea (e le pesanti sanzioni economiche in caso di inadempimento). L’individuazione di un processo improntato ad una forte gradualità potrà, tuttavia, risolvere la questione senza particolari patemi d’animo per le interessate.
Avuto riguardo alla più generale questione di un ulteriore intervento di riforma dell’ordinamento pensionistico generale, reputo rimangano tuttora valide le evidenziate ragioni, che inducono, per il momento, a soprassedervi. Da un lato, infatti, va detto con chiarezza che la difficile situazione sociale del Paese non sembra davvero abbisognare di ulteriori momenti di diffusa preoccupazione e tensione e, dall’altro, che a fronte di una popolazione crescentemente destinataria, in tutto o in parte, del metodo di calcolo contributivo dei trattamenti pensionistici, la generale sostenibilità del sistema è fortemente aiutata dai contingenti, miserrimi, andamenti del PIL, i quali determinano un’automatica contrazione dei montanti virtuali finali, su cui sarà calcolata la rendita pensionistica. Se consideriamo che anche il dovuto modificarsi dei “coefficienti di conversione” determinerà ulteriori contrazioni del livello degli assegni pensionistici (e, quindi, del tasso di sostituzione della pensione rispetto al reddito lavorativo), non è difficile immaginare che, in futuro, i lavoratori cercheranno volontariamente di prolungare il più possibile il periodo di lavoro attivo, anche senza imposizioni legislative.
Alla luce di quanto da ultimo evidenziato, appare quindi ben più opportuno tralasciare dilanianti ipotesi di ulteriori iniziative di riforma dell’ordinamento pensionistico di base, per concentrare l’attenzione sul settore della previdenza complementare, lo strumento, cioè, che potrà/dovrà integrare la sempre più magra pensione di base.
Tra i possibili forti interventi di riforma dell’ordinamento della previdenza complementare stimo dovrebbe essere meritevole di particolare attenzione la proposta di (ri)consentire alla contrattazione collettiva – aziendale, di gruppo, di categoria – di disporre l’adesione obbligatoria dei lavoratori rappresentati ad un fondo di previdenza complementare “negoziale”, a fronte del riconoscimento al singolo della facoltà di:
– recedere dall’adesione al fondo stesso, trascorsi che siano 60/90 giorni da quando gli sia stata formalmente notificata l’intervenuta iscrizione “automatica” al piano pensionistico;
– trasferire liberamente la posizione individuale detenuta presso il fondo negoziale, verso qualsiasi altra forma, trascorsi che siano 2/3 anni dall’iscrizione, con pieno diritto alla continuità del contributo datoriale.
La proposta – certo non priva di varie problematiche tecniche, in un contesto, come l’attuale, di riforma generale della contrattazione collettiva e, comunque, attuabile solo attraverso un intervento legislativo – dovrebbe risultare interessante, anche perché tutt’altro che nuova. Essa rappresenta un sostanziale ritorno al passato (ante aprile ’93), per quanto specificatamente riguarda la previdenza complementare, ed un mero adeguamento alla prevalente prassi del presente, per quanto attiene all’assistenza complementare. L’innovazione suggerita è certamente in grado di assicurare un salto di qualità nella diffusione delle pensioni di secondo pilastro in Italia, sanando una palese contraddizione del nostro ordinamento di settore, di origine tutta ideologica. È, difatti, invero curioso e paradossale che, nell’ambito dell’ordinamento della previdenza complementare (il “vecchio” d.lgs. n.124/1993 ed il vigente d.lgs. n.252/2005), le fonti collettive conoscano una più che significativa enfatizzazione, tale da renderle formalmente elemento centrale del comparto, risultando, peraltro, di fatto sostanzialmente svilirizzate nella loro funzione. Ad esse, infatti, ai sensi di legge, è solamente consentito di costruire il veicolo con cui attuare un piano previdenziale ma la decisione di salire su di esso o di non salirvi è esclusivamente rimessa alla volontà positiva del singolo lavoratore. La qual cosa, con tutti i connessi problemi di conoscenza e di comprensione di una materia quanto mai complessa e trasversale qual’è la previdenziale e di conseguente modesta diffusione dello strumento piano pensionistico complementare.