Quando Benedetto Croce dialogava su Dio

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Quando Benedetto Croce dialogava su Dio

Quando Benedetto Croce dialogava su Dio

21 Ottobre 2007

Anche
nell’estate del 1942, la famiglia di Benedetto Croce si ritrovò per la
villeggiatura «nella solita Pollone, luogo – come scriveva la figlia Elena –
che non ha attrattive speciali ma il gran pregio di posti dove si ritorna
sempre, e di essere familiare e quieto». Dopo un po’ anche il filosofo
raggiunse la moglie e le figlie, portando con sé un volumetto donatogli da una
nuova amica, la poetessa Maria Curtopassi. Si trattava di un’edizioncina del Nuovo Testamento, senza pretese erudite
o critiche: «questa modesta copia – gli aveva scritto Maria – non è per lo
studioso e l’erudito, è semplicemente – credo di poterlo dire – per il
cristiano nella speranza che vi trovi luce e conforto quando li cerchi».

Erano sette o
otto anni che Croce non rileggeva «quel libro capitale della storia umana»:
un’eco dell’ultima volta era stato il breve, ma mirabile saggio su un passo del
vangelo di Giovanni, Gesù e l’adultera,
pubblicato nel 1939. Ma allora si era servito della «vecchia e classica
traduzione italiana di Giovanni Diodati», di un autore, cioè, che la
cattolicissima amica non gli avrebbe mai potuto proporre. Ora invece l’edizione
che aveva fra le mani, «rassomigliava terribilmente a un libro da messa».
Stavolta le pagine evangeliche e le epistole paoline non gli ispirarono una
meditazione morale ed estetica, ma una riflessione sulla storia della civiltà.
Lo annunciava alla Curtopassi il  30
agosto: «ho proseguito, e quasi terminato, in questi giorni il Nuovo
Testamento. […] sono profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la
civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell’impulso dato da Gesù e da
Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico, che
pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto non sente Ella che in questa
terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione ancora
cristiana della vita con un’altra che potrebbe risalire all’età precristiana, e
anzi pre-ellenica e pre-orientale, e riattaccare quella anteriore alla civiltà,
la barbarica violenza dell’orda? Portae Inferi non praevalebunt. Spero
bene».  Fu il celebre saggio Perché non possiamo
non dirci «cristiani»
, comparso sulla «Critica» del 20 novembre 1942,
che  – come il filosofo avrebbe scritto a
Guido Gonella  nel gennaio successivo –
«non contiene, in verità, niente di nuovo, perché i concetti di cui è intessuto
sono già in tutti i miei libri di filosofia e di storia. Nuovo è stato soltanto
il proposito di raccogliere in breve quadro alcuni miei concetti».

Un tale proposito era nato proprio per
rispondere alle incalzanti domande e alle affettuose insistenze di una sua
lontana parente (la
Curtopassi, appunto), che a metà del 1941 gli aveva inviato
alcune sue liriche,  chiedendogli un
parere spassionato. Si trattava in gran parte di poesie religiose, in quanto la
nobildonna era animata da una profonda fede cristiana, che la sosteneva nella
lunga malattia da cui era afflitta. Al filosofo, che in campo letterario non
aveva mai amato le avanguardie, quelle poesie piacquero: gli parvero nascere
«da uno spirito nobile e severo, profondamente religioso e da un’anima
sensibile». Volle anzi fare un’eccezione alla regola che si era data, di  recensire il meno possibile sulla «Critica»
la letteratura contemporanea (ma in quegli anni scrisse anche di Piovene e di
Bacchelli), e vi presentò le liriche della Curtopassi, una volta che furono
riunite in un volumetto.

Il giudizio
di Croce può sembrare al lettore di oggi eccessivamente benevolo, ma tale  benevolenza %0D
non  è da imputare soltanto ai
suoi gusti letterari un po’ surannés.
Fra i tanti elementi “cristiani” della sua personalità, ve n’è uno su cui forse
non si è riflettuto abbastanza: la convinzione che la “verità” spesso viene colta
più dalle anime semplici e sensibili che dai dotti (dagli intellettuali,
potremmo dire oggi) e che quelle la vivono con una serietà e una profondità, di
cui spesso i cosiddetti uomini di cultura non sono capaci. Nelle poesie di
Maria, certo formalmente non ineccepibili, qua e là zoppicanti nel ritmo e
nella sintassi, individuò tuttavia «un fondo di fede umana in ciò che è
superiore e solo ha valore, che io ho ritrovato talvolta nelle persone più da
me diverse di concetti e di opere, e pel quale mi sono sentito congiunto
intimamente con un prete e con un materialista, assai più che non con altri che
con me consentiva nelle idee e nell’azione pratica. Forse questo intimo e
profondo consenso, questo fluido impalpabile, è ciò che Ella chiama, e che
anche a me piace chiamare, cristianesimo» (Napoli, 3 gennaio 1942).

Era la
«sapienza del cuore» del salmista, che Croce rinvenne soprattutto in alcune
figure di donna, con cui finì per stringere una profonda  e devota amicizia. Non erano «dame», attente
alla moda  o alle regole della buona
società, anzi spesso si trattava di outsiders
rispetto alle convenzioni sociali, come il grande amore della sua giovinezza
tardiva, Angelina Zampanelli, scrittrici e giornaliste come Matilde Serao e
Neera, spiriti  liberi come Ada Gobetti.
Ma anche la moglie Adele: «Per mia buona ventura –  scriveva a Maria il 30 dicembre 1942 il
filosofo quasi ottantenne – io ho accanto una creatura umana che mi ricorda
sempre con i suoi atti e con le sue parole, che la vita bisogna prenderla semplicemente, fare ogni giorno quel che
si può e non lamentarsi mai; e quando pare che le difficoltà si accavallino, il
suo volto serio s’illumina di un sorriso che è inconsapevolmente filosofico, o
religioso, del servire “Domino in Laetitia”. Mi perdoni questo sfogo di
personale gratitudine».

 E infine donne di profonda fede religiosa come
Maria Cittadella e, appunto, la Curtopassi. Lo stesso consenso istintivo, su ciò
che conta veramente nella vita, lo avvertì anche con molti cattolici liberali,
che furono forse i tipi umani con cui gli riuscì più naturale l’affiatamento.
Lo avrebbe dichiarato a chiare lettere nel 1945: «Io conosco e stimo e amo e
considero amici e fratelli molti cattolici, schiettamente liberali; né ciò solo
nei nobili ricordi della storia del Risorgimento, ma nel presente. […] Mi
sento dunque in intima unione con loro, direi nel modo stesso in cui mi sento
con quegli uomini di gusto che discernono e amano la bella poesia, ancorché
professino teorie a mio giudizio imperfette e che non sono logicamente adeguate
al fatto del loro gusto sicuro. Con una differenza, per altro, su quest’ultimo
punto: che, laddove quando mi càpita di discorrere in pubblico o in privato con
uomini di gusto delle imperfette loro teorie estetiche, procuro di discutere o
litigo o mi arrabbio con loro per correggere le loro teorie, con quegli amici
cattolici non ho mai fatto né fo questo, perché me lo vietano la delicatezza
verso il sentimento dell’amico e la conoscenza e l’esperienza di quanto siano
aspri e tormentosi i problemi della vita e della morte, del mondo e
dell’oltremondo, di Dio e di Satana, ossia del bene e del male, da doversi
bensì dibattere nell’agone della scienza, ma non già servirsene a turbare e
scandalizzare le persone, pretendendo di sforzarle alle nostre conclusioni, e
di entrare violentemente nella pace o nei travagli delle loro coscienze, e di
fugare con una luce insolente ombre e penombre dinanzi alle quali conviene
arrestarsi con rispetto e lasciare che generino dal loro seno stesso la propria
luce». 

Il carteggio
con Maria Curtopassi deve essere letto alla luce di questi sentimenti e di
questi intendimenti: alle sue insistenze e preghiere perché il filosofo passi
dal suo cristianesimo filosofico e immanentistico a una fede trascendente,
Croce non reagisce mai con un moto di impazienza o con dichiarazioni
perentorie. Non vuole – appunto – 
“scandalizzare” l’amica, pretendendo di forzarla alle sue conclusioni.
Dopo avergliele spiegate in una lunga lettera (insolitamente “filosofica”), si
arresta preso come da uno scrupolo:  i
filosofi non saranno veramente, come pretendono le scritture ecclesiastiche,
dei “seduttori”? Ma dichiara subito che egli non vuole indurre gli altri ad
accettare le sue verità, ma «a pensare per cercare ciascuno la propria verità»
(Napoli, 29 aprile 1943). Talvolta 
confessa quasi una sua inadeguatezza di fronte alle personalità
genuinamente religiose come quella dell’amica: «Le dirò che c’è nella religione
delle anime elette qualcosa di poetico e amoroso al quale credo che io non
potrò giungere, perché sono tutto pensiero e azione, con la poesia e l’amore
che questi implicano e sottintendono» (Pollone, 30 agosto 1942). Ma, in un moto
d’orgoglio, dichiara anche di  non
sentirsi da meno di fronte a molta religione “ufficiale” : «Io, modestamente,
so di vivere in un continuo colloquio con Dio, così serio e intenso che molti
cattolici e molti preti non hanno mai sentito nella loro anima» (Napoli, 21
dic. 1947).

C’è da
chiedersi, tuttavia, quanto la posizione di Croce su questi problemi, così
complessa, sottile e moralmente impegnativa, potesse essere a lungo mantenuta
da generazioni lontane dalla sua esperienza: «Leggendo i suoi ricordi di
collegio – gli scriveva Maria – mi sono detta che nel ricevere la dottrina
cattolica Ella ha adottato un abito morale che le è rimasto per sempre, come si
vede da tutta la sua opera. […] Certo, quando si è sentito fortemente da
bambini l’amore di Dio, si porta per sempre un tale ricordo, che anche nei
momenti di dubbi e di tormenti si conserva la fedeltà del cuore» (Roma, 2
aprile 1942). Egli così, nella sua
ricerca filosofica, non accantonò il problema religioso, ma, prendendo atto
dell’evoluzione del «pensiero moderno», cercò di restaurarlo in termini di
immanenza. Questo comportò un rapporto intenso con la tradizione cristiana e i
suoi valori, di cui la sua filosofia si presentò come rilettura e inveramento;
e un atteggiamento di grande finezza e profondo rispetto nei confronti del
fenomeno religioso e degli uomini di religione, che non incalzò mai con una
«logica» unilaterale e ultimativa e verso cui evitò sempre atteggiamenti di
sufficienza.

Cos’è rimasto di tutto ciò nel successivo mondo
liberale italiano? E nel suo costume? Nel 1964, Elena Croce, che pure il padre
affettuosamente rimproverava perché «troppo […] dama» (p. 61), pubblicava un volumetto intitolato
significativamente Lo snobismo liberale.
Si trattava di un’ acuta analisi di costume e di mentalità, che descriveva con
ironia il progressivo venir meno di questo sfondo religioso (la “religione
della libertà”) che era stato proprio del liberalismo di suo padre e dei
“grandi vecchi” con cui si intratteneva negli anni della dittatura, e questo anche
in molti ambienti che pur si dichiaravano loro eredi. Era, in qualche modo, la
percezione di uno scacco.

Il carteggio fra Croce e Maria Curtopassi (Dialogo su Dio. Carteggio 1941-1952) è
stato pubblicato presso la casa editrice Archinto da Giovanni Russo, autore
anche della nota introduttiva (pp. 11-33). Alcuni brani erano stati anticipati
in G. Russo, Croce. Perché non posso non dirmi cristiano, in
«Corriere della sera», 11 dicembre 1998, p. 33.  In appendice  vengono ripubblicate anche le poesie della
Curtopassi e la recensione crociana del 1942, oltre che una breve biografia
della poetessa nata nel 1895 e scomparsa nel 1975. L’edizione  è – come si dice – “sobriamente
annotata”  e forse qualche indicazione
ulteriore poteva riuscire preziosa: p.e., il G.G. autore dell’art. Perché siamo cristiani, in
«L’Osservatore romano», 15 gennaio 1943, è Guido Gonella. La lettera di Croce
qui datata: Napoli, 1 febbr. ’49 (pp. 123-125) deve essere anticipata di un
anno, in quanto risponde evidentemente a quella della Curtopassi  del 20 gennaio 1948 (pp. 107-110)