Quando il Generale tornò per salvare la Francia

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Quando il Generale tornò per salvare la Francia

18 Maggio 2008

"Dopo dodici anni, la Francia, alle prese con problemi troppo difficili per il regime dei partiti, è avviata verso un declino disastroso. È a questo punto che il Paese si è rivolto nuovamente a me affinché lo conduca unito alla sua salvezza. Oggi, di fronte alle nuove prove che lo attendono, che il Paese sappia che io sono pronto ad assumere i poteri della Repubblica".

Erano le 17.30 del 15 maggio 1958, quando le parole dettate dal generale Charles de Gaulle all’agenzia France presse vennero distribuite ai giornalisti e diffuse attraverso le onde di radio Algeri. Ancora una volta il Generale correva in soccorso del suo Paese. Questa volta non si trattava di replicare all’invasione nazista e all’inconsistente reazione dei vertici militari e politici della III Repubblica, come nel giugno del 1940. Questa volta bisognava salvare la Francia dalla minaccia proveniente da oltre-Mediterraneo dove, due giorni prima, un Comitato di Salute Pubblica composto da personale militare e civile aveva intimato alla Presidenza della Repubblica la creazione di un governo di unità nazionale in grado di riportare l’ordine in Algeria e di impedirne la secessione, sempre più probabile, dalla madrepatria. Anche in questo caso, come nel 1940, la classe politica francese stava dimostrando tutta la sua ignavia ed impotenza di fronte a quello che era oramai a tutti gli effetti un putsch militare.

Apparentemente la minaccia del 13 maggio aveva scosso la classe dirigente della IV Repubblica dal suo torpore e dopo due settimane di crisi ministeriale, l’Assemblea nazionale era riuscita a trovare i voti per nominare Presidente del Consiglio il centrista Pflimlin il quale, nel tentativo di prendere tempo, aveva nominato il generale Salan, in quel momento comandante delle forze armate francesi ad Algeri, delegato generale del governo in Algeria. Ma la parvenza di attivismo governativo andò in frantumi proprio il 15 maggio, quando di buona mattina il generale Salan aveva concluso il suo discorso al forum d’Algeri con un triplice grido «Vive la France! Vive l’Algérie française!», alcuni secondi di silenzio, un suggerimento del gollista Delbecque e «Vive de Gaulle!». Il Generale era di nuovo della partita e il suo comunicato di poche ore dopo lo confermava.

Le affinità con il 1940 e l’avvio del lungo percorso del gollismo di guerra terminano però qui. Con l’appello del 18 giugno 1940 de Gaulle aveva avviato un lungo cammino di progressiva legittimazione politica rispetto agli anglo-americani e poi alla Resistenza interna, con l’obiettivo di accreditarsi come l’unico e incontrastato leader della Francia che non si era inchinata al nazismo e che combatteva a fianco delle forze democratiche. Il rientro nell’agone politico dodici anni dopo la sua violenta rottura con il sistema dei partiti della IV Repubblica non poteva di certo caratterizzarsi come risposta alla sollecitazione di un gruppo non ben definito (anche dal punto di vista democratico) di sostenitori dell’Algeria francese.

Consapevole della necessità di una chiara legittimazione democratica, il Generale si presentò davanti ai giornalisti il 19 maggio per una conferenza stampa, quasi tre anni dopo la sua ultima apparizione pubblica del 30 giugno 1955. Il tono fu solenne e fermo. Il responsabile della situazione in cui si trovava la Francia fu immediatamente individuato («il regime esclusivo dei partiti»), ma allo stesso tempo era chiaro il motivo della sua proposta di discesa in campo. Il Generale era pronto a ri-assumere i poteri della Repubblica dal momento che già una volta aveva salvato il Paese dalla sconfitta e dal giogo della dittatura e dell’occupazione straniera. E in quella occasione, «quando la Repubblica era stata tradita dagli stessi partiti politici, io ho fatto rinascere il suo esercito, le sue leggi e il suo nome. […] Ho fatto la guerra per ottenere la vittoria della Francia e ho fatto in modo che questa divenisse anche la vittoria della Repubblica. […] Ho ricondotto insomma la Repubblica nella sua legittima dimora». La resistenza e la lealtà repubblicana dimostrata nei lunghi e cruciali anni che dal 1940 giungono al 1946 avevano permesso a de Gaulle di mostrare il suo vero volto. Infine, quasi sarcastico, concluse l’intervista affermando «credete davvero che abbia intenzione di iniziare una carriera da dittatore a 67 anni»?

A questo punto, sgomberato il campo da ogni legittimo dubbio di voler salire al potere grazie ad un colpo di stato, il Generale aveva rimesso la palla nel campo avversario, quello della classe dirigente della IV Repubblica. Ad accelerare gli eventi giunsero le notizie provenienti dalla Corsica, occupata da una compagnia di paracadutisti provenienti dall’Algeria e da una non meglio precisata operazione militare denominata «Resurrection», pronta ad essere lanciata con l’obiettivo di occupare militarmente tutti i centri nevralgici del Paese.

Nella notte tra il 26 e il 27 maggio de Gaulle, dopo aver letto un’angosciata lettera dell’ex Primo ministro socialista Mollet, decise di incontrare il Presidente del Consiglio Pflimlin, per valutare la possibilità di un suo rientro nel gioco politico. Di fronte ad un Pflimlin calmo e determinato a non abbandonare il suo posto, de Gaulle mostrò altrettanta fermezza e in particolare ribadì il suo «no» ad una condanna esplicita del colpo di mano avvenuto in Corsica. Per quale motivo salvare il «regime esclusivo dei partiti», nel momento in cui questo non aveva ancora deciso se chiedere o meno formalmente aiuto all’«uomo del 18 giugno»? Dopo essere rientrato nella notte a Colombey-les-deux-Eglises, il Generale decise di rompere gli indugi e nella tarda mattinata del 27 maggio rilasciò un nuovo comunicato alle agenzie di stampa.

"Ho avviato ieri il regolare processo necessario alla formazione di un governo repubblicano, in grado di assicurare l’unità e l’indipendenza del Paese. Conto che il processo prosegua e che il Paese dimostri, con la sua calma e la sua dignità, che desidera che esso sia portato a termine. […] Mi attendo che le forze terrestri, navali ed aeree presenti in Algeria adottino un comportamento esemplare agli ordini dei loro capi. A questi ultimi esprimo la mia fiducia e l’intenzione di mantenermi costantemente in contatto con loro".

In un colpo solo il Generale aveva preso in contropiede la classe politica della IV Repubblica, rappresentata in particolare da Pflimlin che rassegnò immediatamente le dimissioni, e i generali, sempre più decisi a passare dalla minaccia teorica a quella concreta di invasione del Paese.
A questo punto giunse, quasi insperata, un’altra sponda, proprio da quella classe politica della IV Repubblica che dal discorso di Bayeux del 16 giugno 1946 de Gaulle non aveva smesso di attaccare. Il Presidente della Repubblica René Coty decise infatti di redigere un comunicato che i presidenti Le Troquer e Monnerville lessero di fronte a deputati e senatori. Il Paese era sull’orlo di una guerra civile e nella situazione di pericolo estremo per la Patria e per la Repubblica, Coty aveva scelto «di rivolgersi al più illustre dei francesi, a colui che negli anni più oscuri della storia di Francia fu il nostro capo nella riconquista della libertà e che dopo aver riunito attorno a sé l’unanimità nazionale, aveva rifiutato la dittatura per ristabilire la Repubblica».

Il cerchio era chiuso. La legittimità che il Generale cercava all’indomani dell’ambiguo «Vive de Gaulle!» del 15 maggio era condensata nelle parole del Presidente della Repubblica, non a caso con un esplicito riferimento all’epopea resistenziale.  In tre giorni il Generale formò un esecutivo poco gollista e al contrario ricco di uomini della IV Repubblica. Accanto ai fedelissimi Michel Debré e André Malraux, sedevano infatti l’ex Presidente del Consiglio Pflimlin, il socialista Mollet e il moderato Pinay. L’obiettivo dichiarato era quello di gestire la transizione con il sostegno parlamentare più ampio possibile, anche perché il progetto politico del Generale era chiaro: ristabilire l’ordine repubblicano, naturalmente cominciando dall’Algeria, ma soprattutto riprendere il lavoro laddove era stato interrotto dodici anni prima e cioè riformare le istituzioni della Repubblica affinché il Paese potesse contare su governi stabili e non sottoposti ai continui ricatti causati dalla centralità parlamentare.
Il 1 giugno l’Assemblea Nazionale votò la fiducia al suo esecutivo con l’opposizione dei comunisti, di alcuni radicali e di circa la metà del gruppo socialista. Ma il vero voto decisivo era quello del giorno successivo. Infatti il 2 giugno il Parlamento era chiamato ad esprimersi su tre testi che dovevano conferire al governo de Gaulle i poteri speciali in Algeria, i pieni poteri legislativi per sei mesi e la delega dei poteri costituzionali. Mentre sui primi due il voto fu abbastanza scontato (all’opposizione quasi soltanto i comunisti), sul terzo l’ambizione di de Gaulle era davvero alta.

Il progetto di legge costituzionale depositata dal governo de Gaulle era chiaro: mandato all’esecutivo per scrivere una nuova Costituzione da sottoporre al voto popolare attraverso una consultazione referendaria. La lettura del Generale era cristallina nella sua chiarezza: il disastro algerino era essenzialmente frutto dell’impotenza delle istituzioni della IV Repubblica. Riformare le istituzioni diventava una priorità da anteporre alla risoluzione del caos che si era manifestato il 13 maggio. Di fronte alla pioggia di emendamenti che accolsero questo testo, il Generale in persona decise di andare a difendere la sua proposta all’Assemblea Nazionale, con una vera e propria «operazione seduzione» nei confronti dei parlamentari conclusa a notte fonda con queste parole: «La sola domanda che ci dobbiamo porre nella situazione in cui si trova il nostro Paese è sapere se la Repubblica riuscirà ad autoriformarsi o se scivolerà verso non si sa quale sovversione…». All’una di notte giunse il responso: 350 voti a favore, 161 contro e 73 astenuti.

Il capolavoro era compiuto: i partiti politici della IV Repubblica avevano firmato la loro eutanasia e per de Gaulle si aprivano le porte per elaborare un testo che in meno di novanta giorni sarebbe diventato la Costituzione della V Repubblica, fondata sulla centralità della Presidenza e del meccanismo referendario. L’uomo del 18 giugno aveva, ancora una volta, salvato la Francia dal baratro e in questa occasione era pronto a costruire solide fondamenta istituzionali che, a 50 anni di distanza e nonostante alcune revisioni, sono tra le più efficienti di tutto l’Occidente.