Quando l’incanto lancia la sfida alla mediocrità e all’omologazione

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Quando l’incanto lancia la sfida alla mediocrità e all’omologazione

16 Maggio 2010

Parlare di incanto in un mondo in dissolvenza è un paradosso. L’umanità fiaccata e violata nei suoi sentimenti dalle ruspe di chi ha venduto l’anima al nichilismo della velocità ed è incapace di guardarsi dentro; la natura travolta e disossata – anche se mai completamente doma – della sua intrinseca spiritualità dalla vanga del progresso giacobino e tecno-scientifico; il sacro estirpato e messo all’angolo come inutile orpello di una vita degna solo se vissuta sul filo dell’egoismo e di un’atea modernità; il senso comune calpestato e ucciso dall’individualismo e dall’estraneità a qualsiasi condivisione.

Eppure a Reggio Emilia ci provano. Intitolando proprio all’incanto l’annuale edizione di “Fotografia europea”, una delle più importanti rassegne internazionali di fotografia, promossa in collaborazione con  “Rencontres d’Arles” e per l’anno in corso con “Rencontres de Bamako – biennale africaine de la photographie”, in cui le tendenze africane contemporanee si fondono con l’elegante maestosità del Teatro Valli, dove sono esposte le opere di giovani artisti come il nigeriano Abraham Oghobase o il camerunense Guy Woueté. Giunta ora alla sesta edizione, in programma dal 7 maggio al 13 giugno, la kermesse reggiana offre mostre, omaggi, progetti e produzioni in oltre 240 luoghi del centro città, che per l’occasione diventa un polmone sociale e culturale empatico e compartecipe.

Dall’omaggio a Man Ray, pittore e grande fotografo americano morto nel 1976 a Parigi, esponente dada e surrealista, che con il suo famoso Noir et Blance (1926) rappresenta l’incantesimo, più che l’incanto, che promana dalla doppiezza del reale, trasfigurato in un femmineo viso bianco-latte accostato alla negritudine di una maschera africana, nel gioco di equilibri della vita; al catalogo delle “cose illuminate” del piemontese Maurizio Agostinetto, di cui la sinagoga ospita la selezione forse più originale del festival: 52 categorie di soggetti, scelti prima di partire per un viaggio, visti ognuno in 7 variabili differenti per un totale di 364 scatti realizzati poi durante il cammino in bicicletta verso Santiago de Compostela: oggetti ed esseri umani colti nel momento in cui il buio non li ha ancora strappati al raggio di luce che li illumina e li corrompe, cambiandone l’apparenza e il senso, come per Di fronte, immagine del crocifisso che risplende nell’istante in cui il pulviscolo divino colpisce centralmente il corpo del Cristo morto.

Dall’analisi della quotidianità di Alessandra Spranzi, autrice milanese che si sofferma sulla casualità delle “cose che accadono” ogni giorno, quei “riti del caso imperfetto” che disvelano l’incanto nel divenire quotidiano; al progetto del francese Alain Willaume, nato a Strasburgo ma parigino d’adozione, inseritosi nel filone dell’ “Europa a tavola” di Anne Testut: il senso di straniamento e l’intensità degli sguardi dei commensali colti durante e dopo il rituale del pasto, attraverso la tecnica che consente di far risaltare con colori naturali cibi e oggetti messi in primo piano rispetto al dissolversi verso il grigio degli sfondi (emblematico il ritratto di Vittoria M., presa nell’attimo di stringersi il collo per soffocare il magone esistenziale). 

Per non dire di Micheal Kenna. Il vero pezzo forte del 2010, e certamente il più emozionante. Di cui Palazzo Magnani espone 290 istantanee che rappresentano oltre 30 anni di vita professionale in giro per il mondo: Cina, Giappone, Inghilterra, Francia, Venezia, Reggio Emilia… Nessun reportage, ma una raccolta vibrante di scatti del maestro inglese per rappresentare attraverso una delle piramidi di Giza, le rocce carsiche della città cinese di Guilin, l’Onda del mare in burrasca nello Yorkshire, la bruma che avvolge Campo San Vio sul Canal Grande, l’incanto per la natura e per il paesaggio che, incontaminato o corrotto dall’azione dell’uomo, continua a effondere magia e sentimento in chi riesca a fermarsi, riprendere fiato e lasciarsi avvolgere dal fascino del Creato. Non a caso la mostra di Kenna è intitolata Immagini del settimo giorno, il giorno in cui Dio, completata la creazione con la nascita della sua opera più straordinaria, l’uomo, si riposa ed entra in empatia con il mondo. Una geografia geometrica, paesaggi lunari, una fotografia secca e malinconica, “leopardiana”, che nella sua sideralità sfugge a ogni contatto che non sia quello dell’animo. Perché, come dice Kenna, “l’arte presuppone sempre un invito alla partecipazione, se questo manca ci si sente esclusi, fuori posto”, e l’opera perde il suo valore.

E allora solo l’essere umano è protagonista, diretto e indiretto, dell’incanto. Lui che, unico, è immagine divina sulla terra. Fuoco cosmico dell’Assoluto, porta spalancata sull’eterno. Nessun paradosso, quindi, ma una sfida lanciata alla mediocrità e all’omologazione.