Quando l’Università è nemica del mercato
19 Febbraio 2012
Del mercato dovrebbe dirsi ciò che si dice della democrazia: che è il peggior modo di assegnare premi e castighi, ad eccezione di tutti quanti gli altri. In una società seria ed operosa, sono i cittadini-consumatori a stabilire quali prodotti scegliere e quali evitare, per quali marche d’auto sborsare migliaia di euro e da quali,invece, tenersi alla larga, anche se i prezzi sono inferiori.
E’ un discorso che vale anche per la fornitura di servizi sociali particolarmente pregiati come un’elevata istruzione universitaria. Le Facoltà d’eccellenza costano di più giacché, reclutando i migliori cervelli, affrontano spese di gestione di gran lunga maggiori rispetto alle facoltà meno attrezzate e meno esigenti.
Una caratteristica tipica dei paesi, in cui la ‘malapianta’ del liberalismo non è mai attecchita, invece, è quella di affidare la valutazione delle merci, materiali e culturali,non agli uomini della strada, titolari in astratto della sovranità sia politica che economica, ma a commissioni di esperti, nominate dall’alto, insediate in ministeri, sepolte nei bunker di pratiche infinite, che richiedono sempre più spazi, più impiegati, più ruoli.
E il bello è che queste esplosioni di metastasi burocratiche vengono presentate come una grande conquista, un progresso di cui essere orgogliosi. Così lo presenta Simonetta Fiori su ‘Repubblica’,con toni trionfalistici che ricordano le veline di tanti anni fa: "Una rivoluzione silenziosa sta per scuotere l’accademia italiana, minacciando di intaccare feudi consolidati, blasoni fasulli e inutili diplomifici. Per la prima volta i sessantamila docenti italiani – dai ricercatori agli ordinari -di novantacinque università pubbliche e private dovranno sottoporre a un giudizio esterno l’attività di ricerca svolta nell’arco di sei anni (dal 2004 al 2010). Sulla base dei loro lavori sarà stilata una classifica degli atenei e dei dipartimenti, che indicherà per ciascuna disciplinale eccellenze e le vergogne. Una mappatura da cui dipenderanno la distribuzione di 832 milioni di euro e soprattutto il futuro della ricerca italiana – meno isolata rispetto al contesto internazionale – e anche degli studenti, che disporranno di uno strumento certo per orientare le proprie scelte".
Verranno, in tal modo, valutati 200 mila ‘prodotti’(avete letto bene: 200 mila!) "sia con metodi bibliometrici sia con la peer review" dove il criterio bibliometrico misura l’interesse suscitato nella comunità scientifica da un lavoro – articolo, libro etc. -mentre la peer review si riferisce alla valutazione che studiosi di pari grado danno di quel lavoro. Come si vede, è in via di allestimento un enorme e costosissimo apparato centralizzato a ulteriore dimostrazione del fatto che la retorica delle autonomie, se sotto non c’è il mercato, serve solo a smantellare quel che resta dello Stato risorgimentale e a creare nuovi poteri e nuove istituzioni illiberali, al di fuori di qualsiasi controllo democratico.
Al fondo, c’è la grande illusione di rimediare alle insufficienze a alle inaffidabilità degli uomini con criteri chiari, razionali, oggettivi. Le Commissioni della bibliometria e della peer review come i cardinali riuniti in Conclave, si presume ispirate dallo Spirito Santo della Scienza: niente più favoritismi, niente più nepotismi, nessuno spazio riservato alla ‘discrezionalità’. Nella fattispecie, i Pari, competenti per le facoltà umanistiche, possono stabilire che la produzione scientifica di un collega è superiore a quella di un altro, in considerazione del numero di pagine di uno scritto, della rivista o della casa editrice che lo ha accolto.
E non sono, questi, parametri oggettivi, si dirà? In realtà, non lo sono: non lo erano nell’Italia di autentici ‘luminari’ come Norberto Bobbio e Guido Calogero, quando, per pubblicare La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper ci si dovette rivolgere a una piccola casa editrice di pubblicazioni pedagogiche (Armando); non lo sono oggi che quei ‘luminari’ sono scomparsi ed editori che pubblicarono Kant e Croce, Hegel e Gentile sono monopolizzati da avventurieri delle patrie lettere, abilissimi venditori di fumisterie ideologiche.
Nello spirito della ‘società aperta’ sono le singole Facoltà, i singoli Atenei, che debbono assumersi il compito gravoso di reclutare docenti e ricercatori, un compito che comporta la libertà di dare una cattedra anche all’autore di un saggio di venti pagine che, a loro avviso, abbia segnato una svolta epocale in un settore scientifico. Sarà il prestigio che ne deriverà all’istituzione non la ‘classifica nazionale delle Università’ a dire se la loro scelta sarà stata saggia e lungimirante.
Per questo si dovrebbe (finalmente) accogliere la proposta di Luigi Einaudi di rendere obbligatoria accanto al titolo dottorale l’Università che l’ha conferito:sarebbe la vecchia maniera liberale di rispettare l’autonomia degli individui e delle istituzioni e di sottoporre le loro opere non al giudizio dei super-esperti, riuniti nella capitale, ma a quello dell’opinione pubblica e del tempo che raramente si sbagliano.