Quando Malaparte pensava alla tecnica dei colpi di Stato
23 Ottobre 2011
di Luca Negri
Curzio Malaparte è stato non solo uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, nonostante le antologie scolastiche non lo segnalino mai come tale, ma anche uno straordinario testimone e sismografo della storia e della politica europee del secolo scorso. Ha visto di tutto ed è stato un po’ tutto: un coacervo di contraddizioni che ci fa venire il mente il famoso verso di Walt Whitman su quanto il contraddirsi sia segno del poter comprender molto, dunque dell’esser grandi. Qualcuno continua a vedere nelle sue evoluzioni solo comodo opportunismo da scandaloso voltagabbana. Vi era certamente molto élan vital in lui, sicuramente la pretesa dannunziana di trasformar la vita in un’opera d’arte, anche ricorrendo all’esagerazione, alla posa. Ma c’era anche qualcosa di vero e sentito che ribolliva sotto, un sincero amore per la libertà.
Appena ragazzino, diede sfogo ai suoi sentimenti mazziniani arruolandosi volontario nella Grande Guerra: un patriota, che però difese nel suo pamphlet d’esordio i “disertori” di Caporetto, coloro che avevano capito di non essere altro che carne da macello per giochi più grandi di loro. Entusiasta squadrista nel fascismo degli albori, quello più intransigente e rivoluzionario, frequentava intanto il liberale antifscista Gobetti. Per un po’ vagheggiò di un Mussolini novello Ignazio da Loyola per estirpare definitivamente dall’Europa tutti i frutti amari della rivoluzione giacobina e della riforma luterana (sebbene fosse di famiglia e indole protestante). Ci volle poco tempo perché sbocciasse il disamore fra il Duce e lo scrittore; Malaparte finì per fare con la sua penna notevoli danni al regime, Mussolini lo volle in prigione, al confino, corrispondente di guerra sui fronti più caldi con la speranza di sbarazzarsene definitivamente.
Sul piano artistico fiancheggiò prima gli araldi della letteratura selvaggia e “strapaesana”, gelosamente italica ed orgogliosamente provinciale, poi fondò con Bontempelli “900”, rivista invece attentissima a quanto di valido si produceva all’estero. Ufficiale di collegamento con l’esercito alleato dal 1944, si confrontò con Togliatti e con il comunismo cinese. Però il padre gesuita che nel 1957 confortò i suoi ultimi giorni in ospedale dichiarò che si era per giunta convertito alla Chiesa di Roma.
In tutte queste contraddizioni qualcosa rimase stabile, e fu il valore del suo stile letterario; sia in novelle e romanzi un poco barocchi, sia nei secchi e provocatorii libelli. La casa editrice Adelphi ha appena pubblicato forse il più famoso di questi pamphlet: Tecnica del colpo di Stato. Il libro che lo stesso autore sentiva di odiare “con tutto il cuore”, soprattutto perché da quel libro era nata “la stupida leggenda che fa di me un essere cinico e crudele, una specie di Machiavelli”. Scritto nel 1931, quando Malaparte era ancora direttore de La Stampa, fu pubblicato in Francia e venne proibito un po’ ovunque. Ovviamente in Italia, in modo particolare in Germania, dove i nazisti arrivati al potere lo bruciarono sulla pubblica piazza di Lipsia. Non perché si trattasse di “arte degenerata” ma perché fu “il primo libro apparso in Europa contro Hitler”, profetizzando molte delle mosse future del dittatore. Anche Trotzky, allora già esiliato da Stalin, attaccò violentemente l’opera. Questa in effetti demistificava brillantemente tutte le rivoluzioni scoppiate nel vecchio continente dall’inizio del secolo.
Quelle rivoluzioni, svelava lo scrittore di Prato, non erano tali, come le presentava la propaganda ufficiale; si trattava di colpi di Stato, con scarsa se non nulla partecipazione popolare, effettuati semplicemente con milizie addestrate che avevano occupato i centri nevralgici delle nazioni indebolite da inetti governi liberali. Malaparte scriveva con cognizione di causa, era stato testimone di molti degli eventi raccontati o aveva comunque visitato i teatri delle supposte rivoluzioni poco tempo dopo. Non solo aveva partecipato in prima persona alla marcia su Roma del 1922, ma aveva registrato i fatti di Polonia, Spagna e Russia. Con quel libro si fece molti nemici fra quelli che aveva chiamato i “catilinari, cioè i fascisti e i comunisti”. Ve ne erano ovunque di catilinari, a destra erano “gli idolatri dello Stato, i partigiani dell’assolutismo statale”, a sinistra volevano “instaurare la dittatura della classe proletaria”. Malaparte voleva spronare le democrazie a reagire anche violentemente contro questi attacchi, “a combattere sullo stesso terreno” Lenin, Hitler e Mussolini.
Oggi nessun paese europeo rischia l’avvento di una dittatura, rossa o nera che sia, ma almeno in Italia c’è una ragione in più per rileggere questo bel libro dell’Arcitaliano, come amava definirsi Malaparte: i colpi di Stato non si fanno più con milizie armate che occupano stazioni ferroviarie o centrali elettriche, si preferiscono le più sottili armi della stampa e delle magistratura. Guarda caso contro un altro Arcitaliano, brillante e controverso, rivoluzionario e conservatore, un po’ Bonaparte e un po’ Malaparte.