Quanto costa la crescita dell’India
25 Luglio 2011
Un miliardo e duecento milioni di abitanti fanno dell’India la più grande democrazia al mondo (dopo aver ottenuto l’indipendenza nel 1947) e la rendono un Paese eterogeneo e complesso. Dietro i successi nel settore dei servizi (che produce il 50% del Pil del Paese), dietro le prestigiose università che sfornano ingegneri anglofoni a decine di migliaia l’anno, e dietro a moderni laboratori di biochimica e nanotecnologie, si celano le ombre di un Paese che deve fare i conti con una corsa che rischia inevitabilmente di lasciare indietro qualcuno.
Volendo ripercorrere brevemente il percorso di sviluppo indiano, si possono facilmente riconoscere due distinte fasi. La prima va dal 1947, anno dell’indipendenza, all’inizio degli anni Ottanta. La politica economica di quegli anni ha seguito un approccio pianificato e centralizzato, basato su piani quinquennali finalizzati all’autosufficienza e al controllo pubblico delle industrie ad alta intensità di capitale di importanza strategica. Non che il settore privato non fosse contemplato, esso era però soggetto ad un rigido sistema di licenze. Dopo un crescita elevata del primo decennio, (4,3% annuo sino al 1964), queste strategie hanno esaurito la loro forza propulsiva generando col tempo una serie di inefficienze e portando il livello di crescita appena al 2,9 % annuo.
Da qui, la scelta di introdurre nei primi anni Ottanta misure di liberalizzazione delle importazioni, di promozione delle esportazioni, e di riduzione degli obblighi di licenze che avevano rallentato parecchio negli anni precedenti il decollo dei privati. Questa seconda fase vide inoltre la riduzione dei settori riservati alle imprese pubbliche o a quelle piccole. Queste misure hanno spinto la crescita fino al 5,6% annuo. Ultimamente tuttavia, abbiamo assistito a ritmi di crescita ancora più esorbitanti; parliamo di un 8% fisso dal 2003 ad oggi.
L’India può contare su una manodopera molto numerosa, come la Cina del resto, e su una popolazione giovane e attiva (l’età media è di 26 anni). Considerando la particolare attitudine degli indiani per lo studio delle scienze esatte, e l’ampliamento sempre maggiore di un know how ormai rigidamente ancorato ai saperi informatici e ingegneristici (pensiamo alla massiccia produzione di software made in India), è facile per i più, immaginare che la strada da percorrere nei prossimi anni, per questo Paese, sarà tutta in discesa. Uno studio “Citigroup” sostiene che nel 2050 Nuova Delhi comanderà la più grande economia mondiale.
Va bene essere ottimisti, soprattutto con un Paese che, come l’India, ha un grande potenziale di crescita. Ma siamo pur sempre nel Paese delle caste, che riducono la mobilità sociale; oltre un terzo degli abitanti vive ancora oggi sotto la soglia di povertà con meno di un dollaro al giorno e nonostante lo straordinario sviluppo del terziario ( un po’ meno straordinario è quello dell’industria), il 60% della popolazione trae sostentamento da un’agricoltura di sussistenza e arretrata. Nonostante le università siano ormai in pari con gli standard di quelle occidentali, il 35% degli abitanti è ancora analfabeta, e nella classifica relativa all’indice di sviluppo dei diritti umani stilata dall’Onu, l’India è ferma al centotrentaquattresimo posto.
Certo la situazione è molto migliorata rispetto alle condizioni di estrema povertà e degrado in cui versava il Paese all’indomani del ’47, ma c’è ancora molto da fare. Fino a qualche decennio fa non esisteva neanche una classe media, ma solo un profondo divario tra ricchissimi e nullatenenti. Attualmente il ceto medio è composto da 56 milioni di persone che sembrano ancora poche rispetto al totale degli abitanti del subcontinente indiano.
Una delle sfide che l’India dovrà cercare di vincere nei prossimi anni, al di la di precoci festeggiamenti, è quella appunto dell’ampliamento della classe media, che si potrebbe ottenere anzitutto togliendo un po’ di gente delle campagne e collocandola in altri settori. Come sostiene il giornalista Swapan Dasgupta dalle pagine del “Pioneer” la priorità è nella crescita della manifattura e dei servizi. Quanto alle condizioni dei lavoratori, la vera spina dorsale di questo progresso miracoloso, “Times of India” ci ricorda che 9 lavoratori su 10 non hanno un formale contratto di lavoro, né sicurezza sociale, né indennità di disoccupazione. Su 450 milioni di lavoratori, tra secondario e terziario, quasi 200 milioni sono irregolari o sottoccupati.
Risulta chiaro dunque che dopo le riforme che hanno permesso il decollo economico, l’India necessita di riforme che sappiano gestire un collage sociale profondamente diverso rispetto al passato, dove le classi sociali si muovono e si toccano tra loro, creando nuove situazioni, ma anche nuovi problemi da gestire. Le contraddizioni di questo Paese sono numerose e complesse. Il contrasto tra i fasti di un occidentalismo raggiunto a tutti i costi, nascondendo quanto di scomodo restava sotto il tappeto, e ciò che si vede sollevando di poco quel tappeto, è davvero stridente. Allora qual è la vera India? Quella del miracolo che risulta dai saggi degli economisti, o quella che Pasolini nel ’61 definì “condannata a rimanere una terra di dannati?”.