Quanto costa non avere una buona politica sociale

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Quanto costa non avere una buona politica sociale

Quanto costa non avere una buona politica sociale

16 Ottobre 2008

Il principio basilare dell’agenda per la politica sociale si basava su uno sviluppo a livello comunitario. Partendo dall’approccio secondo il quale la politica sociale costituisce un fattore produttivo e la promozione della qualità è uno dei motori della prosperità economica, di posti di lavoro più numerosi e migliori e di una maggiore coesione sociale, la Commissione europea è andata avanti con questa impostazione esaminando i “costi dell’assenza di una politica sociale” e integrando interamente l’approccio adottato nel processo di miglioramento della regolamentazione e nelle relative valutazioni di impatto. La revisione intermedia identifica sostanzialmente due priorità fondamentali: consolidare le norme sociali in tutta l’UE garantendo un recepimento e un’applicazione corretti dell’acquis comunitario, che avrebbe dovuto assicurare pari condizioni alle imprese, agevolare il funzionamento del mercato interno e rispondere alle necessità dei lavoratori in un’Europa economicamente integrata.

La Commissione, considerando come una priorità assoluta il rispetto dell’acquis sociale e il controllo sistematico della sua applicazione, insieme agli altri Stati membri, avrebbe dovuto collaborare strettamente per garantire un efficace monitoraggio dell’applicazione del diritto comunitario ed attuare l’agenda stabilita al Vertice di Lisbona e l’agenda per la politica sociale approvata al Consiglio europeo di Nizza, al fine di realizzare le riforme e le modifiche necessarie. Si trattava di misure per lo più datate e riguardanti il fronte dell’occupazione, quello relativo ai cambiamenti dell’ambiente di lavoro, alla promozione dell’integrazione sociale e alla lotta contro la discriminazione, alla protezione sociale, alle pari opportunità. Se si prova a considerare, ora, il tasso di occupazione, presente nel set degli indicatori strutturali per la valutazione degli obiettivi europei della strategia di Lisbona, valutabili nella distribuzione regionale per l’ultimo anno disponibile, il 2007, si rileva come tutte le regioni del Mezzogiorno d’Italia siano al di sotto della media nazionale. Con un valore più basso, registrato dalla regione Campania (43,7 per cento), la performance migliore è quella della regione Abruzzo (57,8 per cento). Osservando la variazione assoluta nell’intero periodo 1995-2007 è sempre la Campania a a far registrare il peggior risultato, con una crescita pari a soli 1,5 punti percentuali.

Anche per la variazione del tasso di occupazione nel periodo 1995-2007, il Mezzogiorno registra valori nettamente più bassi rispetto alle altre aree del paese. Attraverso l’andamento del numero indice si nota come nell’area meridionale la crescita del tasso di occupazione sia stata sostanzialmente in linea con il resto del paese fino al 2002 per poi divergere sempre più negli anni successivi. Nel 2007 il valore registrato nel Sud, ponendo pari a 100 il valore del 1995, mostra una dinamica cumulata di 8,5 punti inferiore a quello del Centro-Nord (rispettivamente 108,9 e 117,4 punti). La differenza tra tasso di occupazione maschile e femminile mette in evidenza la maggiore crescita dell’ area del Centro-Nord rispetto a quella meridionale nel periodo 1995-2007. Nel Centro-Nord il tasso di occupazione femminile passa dal 43,7% del 1995 al 55,3% del 2007 mentre quello maschile passa dal 69,8% del 1995 al 75,3% del 2007. Nel Mezzogiorno invece il tasso di occupazione femminile passa dal 26,6% del 1995 al 31,1% del 2007, mentre quello maschile passa dal 59,8% del 1995 al 62,2% del 2007.

L’indicatore tasso di occupazione, calcolato dal rapporto tra occupati e totale della popolazione nel medesimo gruppo di età, compresa tra 15 e 64 anni è basato sull’indagine europea delle forze di lavoro (EU Labour Force Survey). I dati relativi all’anno 2007 mostrano che i livelli di occupazione più alti si registrano in Svezia (74,2%), Gran Bretagna (71,3%) e Olanda (76%) in maniera tendenzialmente uniforme su tutto il territorio nazionale. Una delle aree meno omogenee è la Germania dove si registrano tassi di occupazione particolarmente elevati nelle regioni meridionali, come la Baviera (73,3%) e il Baden- Wurttemberg (73,8%), mentre in alcune regioni della zona orientale si registrano valori molto più bassi. In Italia è evidente la frattura tra i valori registrati nell’area Centro- Nord, dove in Emilia Romagna si è già raggiunto l’obiettivo del 70 per cento di occupazione previsto nella Strategia di Lisbona e l’area meridionale che non raggiunge in media il 50 per cento. Non sono disponibili informazioni disaggregate a livello territoriale NUTS2 per la Danimarca e la Slovenia che registrano elevati valori nazionali rispettivamente pari a 77,1 e a 67,8 per cento.

Gli Stati membri dovrebbero indicare, nei relativi programmi nazionali di riforma e nelle successive relazioni annuali sul loro stato di attuazione (sic!), iniziative particolareggiate e concrete riguardanti le rispettive risposte politiche alle raccomandazioni e ai punti da sorvegliare per i singoli paesi. Si tratta in fondo di quelle politiche “integrate” relative a come affrontare la segmentazione contrattuale, le forme contrattuali, l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, le politiche attive del mercato del lavoro, i sistemi di sicurezza sociale, come sviluppare la flessicurezza all’interno dell’impresa e offrire la sicurezza nella transizione, come affrontare le carenze di competenze e opportunità tra la manodopera, come migliorare le opportunità per coloro che ricevono prestazioni sociali e i lavoratori sommersi. Giuliano Cazzola ha ragione e dovrà farsi carico di immani fatiche in commissione lavoro.