Quanto è difficile riformare la scuola tra corporativismi e furbizie
31 Luglio 2009
Uno dei primi atti coraggiosi di Mariastella Gelmini fu – agli inizi del suo ministero, un anno fa – il blocco di fatto definitivo delle SSIS, le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario, ovvero quelle istituzioni che, mediante un corso biennale successivo alla laurea, erano preposte a formare e abilitare i futuri insegnanti e che, accanto ad alcuni meriti, avevano ormai cristallizzato molti difetti. Al contempo, il Ministro nominò un Gruppo di lavoro con l’incarico di prospettare in tempi rapidi il nuovo processo di formazione degli insegnanti. Poiché ho avuto il compito di coordinare questo Gruppo tengo a dire che raramente ho visto una equipe funzionare in modo tanto efficiente, armonioso e costruttivo. La composizione del Gruppo sta sul sito del Ministero, e quindi è superfluo far nomi, ma tengo a ricordare non soltanto l’apporto di tutti i dirigenti ministeriali, prezioso e insostituibile per le competenze tecniche specifiche, ma quello dei cinque colleghi universitari che ne facevano parte nonché del rappresentante degli studenti.
Dopo anni e anni di precedenti tentativi falliti, il nostro Gruppo ha prodotto in soli quattro mesi di intenso lavoro, una proposta organica che, alla fine del gennaio 2009, a tempo di record, gli uffici avevano già tradotta in una bozza di regolamento ministeriale. Perché questa – mi permetto di dirlo – efficienza? In primo luogo per la composizione indovinata del Gruppo di lavoro, adatta soprattutto a realizzare e non a discettare a vuoto. In secondo luogo, per l’approccio di metodo: massima disponibilità ad ascoltare chiunque e a raccogliere ogni consiglio scritto e verbale, nessuna disponibilità a trasformare le riunioni della commissione in defatiganti, pompose e vacue “audizioni” in cui si presentano delegazioni più numerose della commissione stessa per trascorrere giornate intere in discussioni teoriche. Se ci si fosse piegati a questa pessima abitudine tutta italica, il Gruppo starebbe ancora qui a fare audizioni senza concludere nulla, mentre un autentico dovere morale era quello di offrire una prospettiva chiara a tutti i neolaureati desiderosi di indirizzarsi verso la professione dell’insegnante.
Sarebbe lungo esporre i contenuti e i principi direttivi del progetto, trattandosi anche di questioni molto tecniche. Proverò soltanto a ricordarne gli aspetti principali per punti:
1) Conservare gli aspetti positivi dell’esperienza delle SSIS – ovvero il principio che occorre anche acquisire tecniche specifiche dell’insegnare – e abbandonarne gli aspetti negativi – fabbricare precari senza limiti, autoreferenzialità, isolamento sia dall’università che dalla scuola, mancanza di qualsiasi ricambio degli insegnanti universitari e scolastici implicati, eccesso di nozionismo ripetitivo in certi casi e di pedagogismo e didatticismo vacuo in altri. L’esistenza di SSIS in cui non si studiava più alcunché di disciplinare, come l’esistenza di corsi di formazione per i maestri che sembravano più corsi di formazione di infermieri o assistenti sociali, era inammissibile. Occorreva creare un equilibrio ragionevole tra preparazione disciplinare, da riqualificare, e preparazione didattico-pedagogica. Quindi, una rigorosa preparazione disciplinare e, al contempo, una preparazione all’insegnamento svolta non in modo meramente teorico, ma sul campo, attraverso un tirocinio da svolgere direttamente nelle scuole, sotto la guida congiunta dell’università e del mondo scolastico.
2) Si è proposta una laurea per la formazione primaria a ciclo unico quinquennale, unificata con quella per i maestri dell’infanzia, il che permette una mobilità tra le due fasce e l’attribuzione della dovuta importanza a una fase che non può pensarsi soltanto nei termini dei vecchi asili. Per la formazione primaria ci si è richiamati a indicazioni precedenti, pensando a un percorso che, dopo la laurea triennale, preveda una laurea magistrale contenente già alcuni elementi di carattere pedagogico e quindi un anno di Tirocinio formativo attivo (TFA) da svolgersi mediante corsi di didattica disciplinare, pedagogici e laboratori e un numero consistente di ore di tirocinio da svolgersi nelle scuole.
3) Dove è stato possibile si sono costruiti dei percorsi di laurea magistrale altamente qualificati che evitino, per esempio, l’attuale disastro per cui la maggioranza dei docenti di scienze delle scuole secondarie di primo grado sono impreparati in matematica e fisica.
4) Chi dovrà gestire tutto questo? Niente più autoreferenzialità, strutture separate che si autoperpetuano, gli stessi personaggi in sella da dieci anni che precludono ogni rinnovamento e che, per giunta, ritengono di aver acquisito diritti a vita. La via è riportare la gestione della formazione di ogni ordine e grado direttamente agli organi universitari (in particolare, le facoltà) in un rapporto equilibrato e di pari dignità con la scuola secondaria per quel che riguarda l’anno di TFA.
5) L’ingresso alle lauree per la formazione degli insegnanti deve essere rigorosamente a numero programmato sulla base delle necessità regionali, per evitare la formazione di nuove sacche di precariato. Certo, c’è il problema dei precari pregressi, ma nulla sarebbe più sciocco che mescolare il problema del reclutamento con il problema della formazione. La definizione di quanti e quali precari immettere in ruolo e in che quota rispetto ai posti disponibili è un problema politico. Mescolarlo con il problema della formazione significa procedere in modo assolutamente irrazionale: ovvero non pensare mai alla creazione di strutture stabili e qualificate ma procedere sempre in termini di provvisorietà. Chi non sa separare i problemi complessi in sottoproblemi da risolvere uno per volta e in termini concettualmente distinti è destinato a non risolvere mai niente e a trascorrere il tempo blaterando dei massimi sistemi.
Il Gruppo di lavoro ha costruito un modello preciso, concreto, semplice e praticabile. Si tratta di avviarlo contemperandolo con le esigenze di riassorbire il problema del precariato, senza corromperne la natura. Altrimenti non avremo mai una riforma che ci dia – almeno in prospettiva! – degli insegnanti qualificati e di alto livello.
Tutte queste cose sono state capite da molti, diciamo da moltissimi. Non soltanto da tanti universitari e insegnanti della scuola, ma soprattutto dai giovani studenti che vogliono diventare insegnanti. Laddove il progetto è stato presentato agli studenti, esso è stato accolto benissimo e praticamente la domanda è stata una sola: «Quando parte?». Già, quando parte? E qui la domanda non va rivolta al Gruppo di lavoro che ha fatto il suo dovere, né agli uffici ministeriali e tantomeno al Ministro, né alle istituzioni che per legge debbono esprimere il loro parere sulla bozza di decreto.
Bisogna rivolgerla agli innumerevoli gruppi che in queste circostanze usano mettersi di traverso per spillare quante più modifiche possibili a loro vantaggio. E il cui potere di ostruzione è tale da rendere risibili tutte le chiacchiere circa il fatto che l’Italia sarebbe diventata un paese sotto dittatura. Ma ci facciano il piacere… avrebbe detto il Principe de Curtis, in arte Totò. E parlando di gruppi non alludo neppure ai precari che, francamente, sono i meno colpevoli di tutti: sfruttati per anni e anni da governanti cinici che hanno stretto patti efferati con i sindacati, hanno certamente la colpa di non essersi abilitati nelle SSIS. Ma è pur vero che quei governanti di cui sopra si sono ben guardati dal dire che la prassi antica doveva finire e non hanno chiuso l’era in cui si usava il lavoro altrui senza chiedere alcuna verifica di merito.
No, i veri corporativi sono tutti coloro che, guardando più all’esigenza di mantenere il consenso dei loro iscritti e aderenti, hanno avanzato le più strampalate e talora efferate richieste corporative minacciando sfracelli di ogni sorta.
Qualche esempio?
– Coloro che l’hanno buttata sul “benaltrismo”, sostenendo che non si poteva discutere di formazione senza prima parlare di reclutamento, o senza parlarne assieme: tutto nel tutto e assieme a tutto, nota formula di chi non vuol concludere nulla.
– Coloro che hanno difeso a oltranza le SSIS al puro scopo di mantenere piccoli privilegi conseguiti nella cristallizzazione separata di quelle istituzioni.
– I soliti gruppi di pedagogisti e didatti della metodologia pura, che considerano una bestemmia ogni forma di conoscenza disciplinare.
– Quegli universitari che hanno tentato l’assalto alla diligenza chiedendo soltanto di includere più spazio ai “crediti” del loro insegnamento, senza alcun riguardo per l’assetto complessivo.
– Quei settori del mondo della scuola che hanno aperto una pericolosissima e sbagliatissima guerra contro l’università in nome dell’autonomia scolastica, sostenendo un principio assurdo, e cioè che la scuola deve formarsi gli insegnanti praticamente da sola, chiedendo addirittura una posizione paritaria nella gestione della lauree magistrali non avvedendosi che così si violerebbe l’autonomia universitaria: come se l’università pretendesse di controllare gli esami di maturità. Si è arrivato a dimenticare che, in fin dei conti, un medico è un laureato in medicina, un avvocato un laureato in legge, ecc. Il progetto rappresenta un punto di equilibrio molto avanzato – più di quello delle SSIS – nel definire un rapporto di pari dignità tra università e scuola e soltanto un irresponsabile può pensare di aprire una guerra tra le due istituzioni che, in questi frangenti, si trasformerebbe in una guerra tra poveri.
– Coloro che addirittura hanno prospettato di trasformare il tirocinio a scuola in un contratto di formazione lavoro pagato, il che rappresenta la forma peggiore di assistenzialismo: in pratica, supplenze a carico del denaro pubblico, che oltretutto creano aspettative di posto fisso a prescindere dal merito.
– Coloro che non vogliono alcuna forma di controllo nel processo di formazione, in parole povere aspirano a realizzare forme di reclutamento completamente al di fuori di ogni regola e verifica di merito definita in termini generali.
E si potrebbe continuare.
Tutte queste richieste sono state ascoltate con pazienza certosina, talora dando luogo a modifiche e aggiustamenti, nello spirito infinitamente dialogante che contrassegna la politica di questo paese, mantenendo l’equilibrio tra apertura al dialogo e esigenza di non corrompere lo spirito del progetto. (Qualcuno dirà: potevate fare le audizioni. Già, così non avremmo avuto neanche un progetto di cui parlare).
Così siamo giunti all’estate, in attesa degli adempimenti istituzionali, con il rischio concreto che ciò che a fine gennaio era possibile – far partire almeno il TFA – non sia possibile, o quantomeno sia possibile soltanto da parte di università particolarmente zelanti.
L’unico modo di prendere questa situazione con fair play è di considerarla come l’esito di una tassa da pagare alle modalità della politica italiana, anche se è una tassa che rischiano di pagare gli studenti.
Ma c’è chi non vuole sottostare neppure a queste elementari regole di fair play. Difatti, alcuni dei signori di cui sopra hanno iniziato uno strano giochetto. Prima, per mesi, hanno sparato a palle incatenate contro il progetto, con insulti anche pesanti nei confronti del Gruppo di lavoro e della famigerata “commissione Israel” («patto perverso siglato nel chiuso di una commissione accademico-ministeriale» e altre amenità). Ora, forse paghi di alcune modifiche ottenute o più probabilmente speranzosi che tutto vada a picco se non ne ottengono altre, ma attenti a che le responsabilità non ricadano su di loro, hanno deciso di sostenere il progetto, quasi ne fossero addirittura gli autori!… E parlano di «resistenze corporative che possono avere qualche udienza presso gli addetti ai lavori [chi mai sarebbero?], ma che risulterebbero incomprensibili ai giovani neolaureati»… Insomma, manca poco che sia colpa nostra o del Ministro e non di chi ha sparato a palle incatenate per mesi. Siamo alla commedia dell’arte.
Bene, se l’intento è di fare uno scherzo, passi. Ma se il giochetto continua, allora bisognerà raccontare con tutti i dettagli ai «giovani neolaureati» chi ha bloccato per mesi il regolamento. E allora per qualcuno non sarà tanto piacevole. Tanto più se il giochetto non fosse soltanto un’uscita sprovveduta da commedia dell’arte ma rispondesse a un calcolo preciso: intralciare con nuove contestazioni – o con le stesse, ostinatamente riproposte – il corso del progetto per poi imputare il fallimento ad altri per non portarne la responsabilità davanti ai neolaureati.
Trattare e discutere a oltranza, passi, anche se in questo paese si raggiungeono livelli assolutamente patologici (si vada in Francia, paese notoriamente fascista, a vedere come funzionano i processi decisionali). Ma esiste un limite oltre al quale la politica perde il suo diritto principale, che è quello di difendere – pur con tutte le mediazioni possibili – la coerenza e il senso delle proprie scelte. Se qualcuno pensa che questo limite sia «resistenza corporativa» è bene che si guardi allo specchio per tornare alla realtà. Se invece sta giocando allo scaricabarile è bene che ricordi che le acrobazie sono sempre pericolose, soprattutto se fatte in dispregio del rispetto che si deve al prossimo, anche nel dissenso.